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  • Alla Roma manca la mentalità della Juventus
Alla Roma manca la mentalità della Juventus

Alla Roma manca la mentalità della Juventus

  • Matteo Quaglini
Dopo un deludente Juventus-Roma in termini di pathos, emozioni e gioco proviamo due giorni dopo a isolare questa classicissima del calcio italiano dalle pieghe del risultato e dei commenti tecnici post gara e cerchiamo di capire, invece, quale possa essere la vera differenza di fondo tra quelli che hanno instillato nel loro Dna l’animo vincente e quelli che combattono ancora per conquistarlo; tra la Juventus governativa profondamente decisa a non abdicare e la Roma rivoluzionaria, sognatrice ma tremendamente e colpevolmente poco pratica. Ci rendiamo conto che per molti da ambo le fedi sarà una blasfemia, ma tant’è soprattutto di eresie si vive. 

Prima di tutto un passo nella realtà è inevitabile e giusto. Il giovane Dybala, fuoriclasse in erba ha segnato e con merito la Juventus ha vinto. Questo dato storico per usare un termine caro a Marc Bloch, storico francese, è il primo fatto inconfutabile della cosiddetta e non meglio identificabile a prima vista mentalità vincente. Sì perché per avere mentalità vincente, occorre vincere non c’è niente da fare. Sembra una frase banale e di una superficialità stucchevole, ma è la porta da aprire per entrare nell’universo di quelli che ragionano vincente e che di conseguenza da vincenti si comportano. 

Questo goal bellissimo realizzato con la giustezza dei freddi chiama all’appello due principi della mentalità vincente: 1. La vittoria e il suo afflato sono sempre a portata di mano, c’è sempre, qualsiasi cosa succeda e per quanti errori si possano commettere, l’attimo che se colto da il successo. La Juventus che sostanzialmente non tira in porta, attende e studia la situazione fino a cogliere il momento risolutore con l’asse Pogba-Dybala. 2. Bisogna essere attenti e bisogna fare un’azione per generarla, tutto è utile anche un errore di un proprio compagno perché magari spinge a un recupero un altro che raddoppia le forze ed è, infatti, la voglia di invertire gli eventi che fa grandi le squadre, non il gioco che è solo il mezzo e non il fine.

Ma cosa vuol dire vincere? Vincere prima di tutto e ancor fuori dal contesto delle partite, significa superare i propri limiti, le proprie paure, migliorare e modificare i propri difetti trasformandoli in punti di forza. Per gli sportivi e gli artisti c’è l’allenamento e la ripetizione, per tutti gli altri la vita che poi è parodiata nello sport e nei suoi attimi più decisivi. Pensate ora per un momento ai grandi allenatori di qualsiasi sport, perché questa filosofia, quest’approccio, non ha confini prestabiliti nei vari sport, ma viaggia creando dibattito e discussioni manichee. Bene, allenatori grandissimi come Julio Velasco che ha creato la squadra del secolo nella pallavolo, Phil Jackson coach zen a Chicago e Los Angels, Doug Beal vate dell’America di Kiraly, Don Fabio Capello, Mourinho, Conte o anche lo zar di Leningrado Platonov e l’iperbole Helenio Herrera, tutti, ma proprio tutti sono partiti dal concetto che la prima vittoria e la più importante è con se stessi e i propri limiti. Questo conferma un’altra cosa molto importante di questa mentalità e cioè che l’errore non è l’ostacolo insormontabile, una volta palesatosi il quale tutto è perduto, arrestando così i sogni di vittoria e lasciando solo l’aria rarefatta e deprimente delle imprecazioni, ma è il passo in avanti verso il successo, verso la vittoria. Questa teoria trova riscontro nella realtà? Si naturalmente, facciamo due esempi inquadrando quell’affresco che è Juventus-Roma, partita di stili e contrapposizioni storiche. 

Un anno fa la Roma di Rudi Garcia perse il più polemico e iracondo Juventus-Roma di sempre, fu la partita dei rigori discussi, dei gesti arroganti dei vincenti, dei goal mangiati dai romanisti Gervinho e Pjanic e della resa romanista all’ineluttabile. Lì la Roma perse l’occasione di emanciparsi, di dare un senso compiuto alla sua storia di squadra rivoluzionaria che vuole, come tutti i rivoluzionari, sovvertire lo stato di cose e arrivare lei alla vittoria. La squadra che aveva il bagaglio 100 punti in 43 partite consecutive di campionato, all’incontro con il momento che poteva farla svoltare verso la filosofia vincente scelse la strada di non cambiare il linguaggio e quindi il pensiero. Pensò al fato, al tanto non si vince anziché ribadire dentro di se e, non fuori le mura, un concetto semplice ma devastante: bene abbiamo perso e allora adesso raddoppiamo le forze, triplichiamo gli sforzi, curiamo i dettagli e diamo battaglia fino all’ultimo minuto dell’ultima partita, se vincono lo scudetto, devono guadagnarselo e devono aver paura di perderlo. Ragionava così Dino Viola che mai si arrese alle sue sconfitte e a quelle della squadra, sancendone lì la nuova mentalità per quell’attimo vincente. Il mondo Roma, i giocatori e Garcia, invece persero loro il controllo della situazione inseguendo la polemica anziché la rivincita che è l’altro elemento irrinunciabile della mentalità, che da questa miscellanea di caratteri si fa vincente, e persero così la possibilità di crescita. Si trattò dell’inizio della fine della Roma che sognava lo scudetto ed è ancora quello stato che dura oggi, malinconico e piatto, come la squadra che si arrocca e gioca per perdere di poco, senza reagire minimamente. Oggi, invece, dove dopo l’undicesima vittoria consecutiva, Allegri che forse deve aver studiato i guru della panchina che prima abbiamo citato, ha ripetuto che nulla è fatto, che bisogna migliorare tecnicamente e nel gioco, in altre parole non ha arrestato il processo di miglioramento, di crescita ed è questo il penultimo elemento della mentalità vincente. L’ultimo è l’abbandono della cultura degli alibi, del non posso, del c’è sempre qualcuno che ci vuol fregare. Il tutto senza naturalmente disconoscere la storia, le personalità e gli stili dei personaggi che fanno, tra gli altri, il racconto del calcio, perché non ci sia ingenuità ma lungimiranza. Al finale abbiamo detto che l’errore è un passo verso il successo e non un invalicabile ostacolo, allora ci pensi la Roma e la società in primis, riparta dai suoi errori, li modifichi, trovi la strada senza le negatività di sempre dell’ambiente. Se si crede che sia il goal di Dybala il segno della sconfitta, allora si è fuori dalla grande ambizione della vittoria, la rete dell’argentino dagli occhi di ghiaccio è solo un dardo al cuore già ferito, niente in fondo se invece s’inseguisse il vero obiettivo, diventare capitani di se stessi.
  

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