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  • Andrea Scanzi: Ibra e gli altri, storie di lessico pallonaro

    Andrea Scanzi: Ibra e gli altri, storie di lessico pallonaro

     

    Di Andrea Scanzi
     
    “E’ un sogno che si avvera”. Zlatan Ibrahimovic l’ha detta centinaia di volte, questa frase. Con una frequenza ampiamente maggiore dei suoi gol in Champions League. Malmoe, Ajax, Juve, Inter, Barcellona, Milan e ora il Paris Saint Germain: sempre un sogno che si avvera. Ibra è l’emblema compiaciuto del calciatore senza maglia né bandiera, parafrasando i New Trolls ma più che altro Carlo Petrini. Infedele, odioso, temuto dai media e dunque celebratissimo. Ogni sua parola pareva provenire direttamente da Socrate, a giudicare dall’enfasi con cui veniva eternata. 
     
    E’ una tendenza naturale: prendere come oro colato qualsiasi cosa che un calciatore dice. Anche se, quasi sempre, non dice nulla. Secondo Frank Zappa il giornalismo musicale aveva tre problemi: era fatto da persone incapaci di scrivere, che dovevano intervistare persone che non sapevano parlare per poi rivolgersi a un pubblico che non sapeva leggere. Paradosso estendibile anche al calcio.  Dal “froci” cassanesco al tottiano “Io rispetto l’omofobia”: il testacoda dialettico è continuo. 
     
    Il lessico pallonaro è un nulla confortevole. Si pende dalle labbra di chi, fatalmente, pensa – insegnava Osvaldo Soriano – con i piedi. Se il poeta è un fingitore, garantiva Pessoa, il calciatore è un menzognero. Per giunta sgrammaticato. Esistono tre filoni letterari. Il primo attiene alla frase fatta: “Giocheremo per vincere”, “Venderemo cara la pelle”, “Il campionato è lungo”, “Meritavamo di più”, “Non andrò mai via da questa squadra”, “Nessun problema con il mister”. In una comunicazione normale, un giornalista reagirebbe a tali nenie come Nanni Moretti a “trend negativo” in Palombella rossa. Nel calcio gli scribi sono invece costretti a elemosinare tali scampoli di saggezza-discount. Spesso attendendo stipati, in fila e recintati, nelle catacombali “mixed zone”, ovvero i loculi che uniscono gli spogliatoi ai parcheggi dei calciatori.
     
    Il secondo filone è l’arringa. Cannavaro che difende Moggi ai Mondiali 2006; Lippi che esorta a prendere a “calci in culo” i (suoi) giocatori dell’Inter. Vialli a Italia ’90: “Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare” (aveva ragione, ma non parlava di se stesso). Vieri che a Euro 2004 sentenzia “So’ più ‘omo io di tutti voi” (l’Italia uscì subito). Conte complottista; Buffon in versione Ghedini; e il neo-juventino Lucio ultrà della Triade. Bei momenti. 
     
    Il lessico pallonaro dà però il meglio di sé nell’inciampo. La Gialappa’s ci ha fondato una carriera. Il best of è in continuo aggiornamento. Luigi Garzya: “Sono pienamente d’accordo a metà col mister”. Mahatma Trapattoni: “Sia chiaro però che questo discorso resta circonciso tra noi”; “Non compriamo uno qualunque per fare qualunquismo”; “Non possiamo fare i coccodrilli e piangere sul latte versato e sulle uova mangiate”; “Il propagarsi o l'essere protagonista comunque sulla base quotidiana dei mezzi di comunicazione è un'esigenza che molti hanno, ma che è altamente inflazionistica; “C'è maggior carne al fuoco al nostro arco, anche se l'arco lancia le frecce”; “Nessuno abbiam vinto come han vinto noi quest'anno”. Il proustiano Altobelli: “Per la mia carriera devo ringraziare i miei genitori, specialmente mio padre e mia madre”; “E' veramente un onore fare qualcosa per questi bambini baciati in fronte dalla sfortuna”; “Ancora cinque anni e sarei diventato geometra”; “Io per giocatori come Kutnetzov e Mikhailichenko farei calze false”; “Le esperienze bisogna vissurle”; “Ho caduto male e mi sono ingrinato una costola”; “Questa Inter è come un carro armato a vele spiegate”. Franco Causio: “Ti ho fatto un cross che era una pennellata! Sembrava un quadro di Pirandello!”. Giuseppe Bruscolotti: “Ho visto la palla che mi arrivava, ho tirato una cagliosa e ho visto la rete che si abbuffava”. Walter Zenga: “’Speriamo’ è un aggettivo che non voglio utilizzare”. E il dadaista Totò Schillaci: “E' un gol che dedico in particolare a tutti”; “Al termine dell'incontro, i tifosi mi hanno spogliato e toccato. Li ho compresi: l'avrei fatto anch'io, mi sarei toccato da solo”; “Certo, non ho un fisico da bronzo di Rialto”. E poi c’è Alberto Malesani. Se Mourinho ha codificato il finto scorretto come cifra egotico-stilistica, Malesani è incline allo sclero seriale. Soprattutto se gli dicono “mollo”. Ascoltiamolo: “Ma quale mollo, cioè che, ma cosa vuol dire mollo? Non capisco” (neanche noi). “Siete molli voi quando dite queste cose qua, perché vi fa comodo dire queste cose qua” (è notorio: quando un giornalista dice “mollo” a Malesani, la sua carriera decolla). “Se sei mollo non fai questa attività qua, ricordate, è la più dura al mondo” (in confronto la miniera è un villaggio turistico un po' buio). Epica, sei anni fa, la sboccatissima arringa in Grecia. Allenava il Panathinaikos. Conferenza stampa, tuta fantozziana e traduttrice sgomenta a fianco. “Perché deve esserci sempre un deficiente di turno qua? E' uno schifo 'sta roba qua! Ma come dove siamo, cazzo? Cos'è diventato il calcio, una giungla cazzo? E ridono ridono, cosa ridete, cosa, vi divertite a scrivere dopo cosa, cazzo. Parole? Ma dopo parole di che? Cazzo”. Quindi il capolavoro: “State calmi, cazzo”. Loro, dovevano stare calmi. Mica lui.

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