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  • Bernardini: Sono Pazzi Questi Vieri

    Bernardini: Sono Pazzi Questi Vieri

    Francamene non me l’aspettavo. Non da lui, timidone come pochi mascherato da sfacciato. Non immaginavo che decidesse di mettersi a nudo e permettere alla gente di osservalo “dentro” come una radiografia. Invece ecco, in libreria, il suo volto simpatico da eterno fanciullo sulla copertina di un volume edito da una casa importante come Feltrinelli. “Chiamatemi bomber” è il titolo dell’autobiografia che Christian Vieri ha scritto con la collaborazione stilistica del collega Mirko Graziano. Una chicca editoriale, spassosa, divertente, talvolta segnata da una nota malinconica, persino un poco commovente che si è già meritata un posto nella classifica speciale del genere.  E questo, al contrario, non mi ha affatto sorpreso. Perché, avendo avuto modo di conoscere Bobo Vieri quando ancora indossava i pantaloni corti e soprattutto avendo avuto la fortuna di “legare” per un poco di tempo con suo padre Roberto sua mamma Nathalie, il fratello Max, la sorella Veronica e nonno Enzo non avevo dubbi che il racconto di fatti e misfatti interpretati di un clan di questo genere potesse produrre altro se non un autentico piccolo e prezioso capolavoro di letteratura sportiva.
     
    Il titolo, naturalmente, non poteva che essere mirato alla professione esercitata dal protagonista di questa incredibile saga famigliare che si apre, casualmente, a Bologna e che immediatamente dopo comincia a rotolare per le strade del mondo con una velocità pazzesca. C’è tutto Bobo in queste pagine-verità scritte con uno stile “parlato” davvero intrigante. Ma non solo. C’è il racconto a tempo di rock modulato da un coro che spesso diventa lui stesso protagonista. Il gruppo dei Vieri racchiuso in tre generazioni le cui avventure sono sovrapponibile a quelle di Asterix e dei suoi compagni Galli all’insegna dello slogan “Sono Pazzi Questi Romani”. Sicchè, cambiando appena la prima consonante dell’ultima parola, ecco venir fuori “Sono Pazzi Questi Vieri”. Una pazzia sana e contagiosa senza la quale la storia non sarebbe così epica e umanamente accattivante.

    Tante le cose dette e scritte da Bobo che già conoscevo. Quelle legate al suo percorso di professionista troppe volte giudicato in maniera maldestra e cioè di calciatore stuzzicato solamente dal profumo del denaro. Quelle che hanno scandito il suo crescere come persona obbligata, spesso, a scavalcare montagne alte così. Quelle che hanno sollecitato le pulsioni del cuore o anche solo del sesso fine a se stesso con l’elenco delle “prede” cadute nella sua rete di bel ragazzo e qualche volta con lui a essere “vittima” di fanciulle focose e anche un po’ manesche. Infine quelle poggiate saldamente sui luoghi cardine del Bobo bambino-fanciullo-ragazzo- uomo. Due in particolare, Melbourne in Australia e Prato alle porte di Firenze. Altre cose taciute per dimenticanza oppure omesse per pudore. Quelle due o tre cose che so di lui e che mi sembra giusto rivelare perché a mio avviso rendono ancora più tenero e “fratello” il protagonista. Insomma, a volergli bene come merita.

    Nel 1984 ho la fortuna di essere l’unico giornalista italiano al seguito della Juventus nella sua tournée estiva in Australia. Tranne Platini, in permesso speciale, ci sono tutti gli uomini dello scudetto guidati da Giuàn Trapattoni, dal suo vice Romolo Bizzotto e curati dall’inimitabile dottor Francesco La Neve che ancora oggi manca tanto. Quindici giorni nell’altra parte del mondo. Persino un altro mondo dove viviamo (mi hanno praticamente adottato e io saggiamente bado di non far casini mediatici) avventure spesso incredibili e talvolta irriferibili alcune delle quali montate in un film girato quotidianamente da Stefano Tacconi. Una cassetta che ancora esiste nella videoteca del portiere oltre chè nella memoria di tutti noi ex ragazzi che, quando ci incontriamo, ci piace ricordare ridendo. Da Sidney ad Adelaide e poi a Melbourne dove, in periferia, facciamo tappa in quella che dovrebbe essere la prima scuola calcio australiana. Si chiama Marconi ed è diretta da una vecchia conoscenza dei bianconeri, specie di Francesco Morini che è il direttore sportivo dell’attuale Juventus. Il suo nome è Roberto Vieri, detto Bob, il quale aveva vestito la maglia bianconera per due stagioni illudendo i tifosi di aver trovato il nuovo Sivori. In realtà Bob era giocatore di genio e talento unici, ma anche un pazzo ingovernabile fuori dal campo. Sicchè dopo vari spostamenti in Italia era finito in Australia per tentare una fortuna che arrivava mai.

    Quel giorno, seduti davanti a qualche birra, quasi piangeva: “Non so chi me l’abbia fatto fare. Una vita impossibile qui in mezzo a questa gente che sembrano tutti pomi bianchi e rossi in viso. Il calcio manco sanno da dove comincia. Impazziscono per uno sport che si gioca con mani e piedi. A scuola i miei figli hanno imparato il cricket. Guardateli là, sull’aia. Pazienza. Comunque non sarebbero buoni per il pallone. Christian specialmente, è una pippa. Io ero un campione e se soltanto non fossi stato matto…”. Guardai fuori. Il solo stava tramontando. Controluce due ragazzini e una bambina. I figli di Bob. Pantaloncini corti, alti per lo loro età. Christian, in casa detto Bobo e da papà “la pippa”, rincorreva una gallina senza riuscire ad acchiapparla. Massimiliano e Veronica facevano il tifo. Per la gallina. Continuava il lamento di Roberto: “Dobbiamo venir via da qua. Non ce la faccio più. Almeno loro, per primi, sennò mi diventano come i pomi. Se qualcuno ci desse una mano…Almeno Bobo, per primo, potrebbe andare a vivere da mio papà Enzo a Santa Lucia”. Nathalie, la grande donna di casa Vieri, ascoltava e sospirava mentre sbrigava le faccende dietro il bancone della mescita. Senza di lei, donna francese con “le palle”, il clan si sarebbe sfatto. Ancora oggi quando torna a Prato Bobo dorme nel lettone con la mamma. Comunque Francesco Morini, che di Bob era stato compagno con Lippi nella Samp di Fulvio Bernardini, promise che avrebbe fatto di tutto per consentire a quei ”pazzi” di tornare in Italia. Morini è sempre stato uomo di parola. Nasceva, in quel molle e sabbioso giugno australiano, la leggenda del picaresco Bobo Vieri. Aveva undici anni e pensava di essere destinato a diventare un giocatore di cricket. E’ lo stesso che oggi invita i lettori a chiamarlo bomber.

    Marco Bernardini

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