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  • Bucciantini: il vero affare è Giovinco

    Bucciantini: il vero affare è Giovinco

    Per fortuna, la Coppa Italia. Ragazzi invecchiati, ragazzi perduti per dimenticanza, per paternalismo. Eccoli: Giovinco, Keita, les revenants.
    Gente che non gioca, ma dovrebbe giocare, in qualche modo, in qualche posto. Talento in panchina, un posto dove i giovani patiscono l’invecchiamento precoce, uno dei mali del Paese, che chiede sempre una prova in più, una prova di troppa a chi invece andrebbe semplicemente perdonato più in fretta. In campo si cresce, in panchina s’invecchia. Ma Giovinco per esempio – ha ancora tempo. È un velo, è leggerezza (non impalpabilità). È un'azione che non c'era sulla lavagna, è una spanna sopra gli altri. Lui distende la sua mano sopra la testa, quando esulta, dopo i suoi gol, così bellissimi: "Aggiungo un palmo alla mia altezza". Alla sua bassezza: "Un problema degli altri, non mio". Eppure quei 163 centimetri sono l’alibi di chi non lo vuole mai pronto, non lo ritiene possibile. Di piccolo ci sono solo certe considerazioni.
    Era un ragazzo di 24 anni quando a Parma dimostrò quello che pochi possiedono: il segreto del calcio. Che è un accumulo di impressioni, la suggestiva attesa di qualcosa, la corsa verso la porta, l'eccitazione e il turbamento dei due punti di vista che si affrontano in campo. L'attaccante e il difensore, l'uno gioca per vincere l'altro. Segnava di giustezza e cannoneggiando, e se serviva sapeva ricamare, aggirare, parabolare. E vedeva il gioco, lo intuiva, lo creava. E quando si muoveva appena, guadagnando quella miseria di campo che gli bastava per controllare la palla, e partire, Giovinco possedeva il senso innato della vulnerabilità dell'avversario, sapendo sempre dove e quando assaltarlo e colpirlo. Segnava, dunque, e assisteva: perché giocava, non c’erano altre spiegazioni. Il suo talento respirava il campo. 
    Così la Juve si comprò (caro) il vecchio bambino cresciuto in casa. 


    Per anni è stato umiliato da una diversità che si voleva addossare a lui, e che invece era del Paese. Nella Juventus di Conte ha avuto pochi minuti per consumare la sua voglia: è giovane, dicevano, anche se ormai si avvicinava ai trenta. È basso (santo cielo). Non era vera né l'una né l'altra cosa. Aveva l’età per qualsiasi sport, e il talento per farcela con il calcio, anche ai massimi livelli. Il calcio non è diverso. L'Italia è un paese diverso, che vuole leggere il certificato dell'anagrafe perché non ha fiducia nei ragazzi, li mortifica di eterne prove. Li vuole inadeguati. E se non basta, si mette a contare i centimetri e 163 erano pochi. Un giorno disse: "Io ringrazio Guardiola e il Barcellona. Loro fanno un calcio magnifico. E sono tutti piccoli, Iniesta, Xavi, Messi...". Nella Juventus di Allegri è andata anche peggio, tanto che il contratto in scadenza non è più un assillo, ma sembra un’opportunità. Anche per gli altri, per chi cerca gol e passaggi non banali, per chi necessità di velocità sul perimetro, per chi attacca palla a terra, per chi invidia Mertens al Napoli, per la Fiorentina, che gioca il calcio perfetto per Giovinco, e le manca un acceleratore di manovra sul centro sinistra dell’attacco. 
    Quando Giovinco segna e tutti i compagni lo abbracciano, lui sparisce sotto gli altri, come poco prima era sparito ai difensori, finta lì, palla di là. Tutte cose viste e dimenticate, fino a giovedì: c’è stato davvero troppo cinismo nella gestione di questo ragazzo nato a Torino e cresciuto a Beinasco, sulla tangenziale sud del capoluogo, vicino a Mirafiori, perché il padre Giovanni, metalmeccanico, aveva trovato un lavoro nell'indotto della Fiat. Venne nel 1970, partendo da Bisacquino, nel Palermitano, vicino a Corleone, dove nacque anche Frank Capra e dove comandava il bastone della mafia. Frasi ritrovate qua e là: "Ci sono tornato una sola volta, mentre quasi ogni estate passo da Catanzaro Lido, dov'è nata mia madre Elvira". Fu lei a sottrarre la "O" dal nome di Sebastian, così da dargli un tocco esotico, un nome da calciatore per un tipo che preferisce passare le vacanze a Casciolino invece che a Formentera. È una persona educata, ha avuto genitori intelligenti, "non li ho mai visti attaccati alle reti di recinzione degli stadi dove giocavo". Firmando il primo contratto importante, da 500 mila euro, pensò a loro: "Adesso potranno invecchiare tranquilli". In casa c'era uno stipendio solo, da tuta blu. 

    Lui era in campo – era il più atteso, assieme a Balotelli – quel pomeriggio in Svezia, semifinali dell’Europeo Under 21, Italia-Germania 0-1, “una beffa” titolarono tutti i quotidiani: l’Italia dominò. Fra i tedeschi, Ozil, Neuer, Howedes, Boateng, Marin, e in panchina gli altri, Mueller, Khedira, e in tribuna Kroos. I tedeschi già titolari nelle maggiori squadre, e nel giro di pochi anni – rafforzati dal quella fiducia e da quelle sfide di vertice – ossatura della Germania campione del Mondo. I nostri, titolari quel giorno, e poi riserve, qualcuno in serie B (Cerci era stato a Pisa, Candreva era a Livorno), quasi tutti in prestito nelle squadre di bassa classifica, prestito a vita, s’intende. Ma questo pezzo non è un "coccodrillo": Giovinco è vivo, ha aspettato con immensa educazione, si è allenato. Adesso giochi, se non può farlo a Torino lo faccia altrove: girano un sacco di nomi, di ex calciatori pronti allo svernamento in Serie A, di attaccanti di ritorno da Oriente, o mezzi infortunati, sicuramente tutti ottimamente assistiti da procuratori eccezionali. Ma il vero affare lo fa chi prende Giovinco.

    Voleva essere un pezzo condiviso fra Giovinco e Keita Baldé Diao, semplicemente Keita, ma è andata così, lo spazio in queste righe a chi ne ha avuto poco fra le righe del campo. E di Keita ci sarà più tempo per parlarne: è calcio allo stato puro, allo stato grezzo. È natura ed è stile: fa cose difficili con grazia. Ma siccome è giovane, non bisogna nemmeno fargli i complimenti, fanno male alla crescita (altra oscenità di un certo modo di pensare). Certo, il carattere dispersivo non lo aiuta, eppure non sembra nel solco di chi si lasci lusingare dagli agi. Ha già pagato conti esagerati, lasciando Barcellona per uno sciocco e innocuo scherzo a un compagno. La Lazio c’era e può essere l’acquisto da ricordare (per fare un esempio: alla Pogba), se il tempo smeriglierà il ragazzo, pieno di talento e di non troppa stravaganza: solo il campo può sgrossarlo, non certo la panchina o l’attesa. La Lazio va forte, gli esterni sono fonte di gioco e di reti, ma i minuti per Keita vanno trovati, pochi o tanti, non per forza titolare, ma nemmeno in castigo. Quelli di Keita sono gol da vedere, da commentare, sono corse e dribbling da restituire alla gente, agli appassionati. E vent’anni sono un’età da spendere nello sport, in un gruppo, in una squadra. Possono aggiungere molto.

    Eccolo un po’ di mercato fatto come la ribollita o la minestra “maritata”, roba che è in casa, quasi d’avanzo, o al mercato davanti all’uscio. Giocatori capaci di spaccare le partite, di metterci qualcosa, e questo pezzo è davvero un appello, cominciamo da Sebastian, possibile che non ci sia la fila per uno che un giorno, al giornalista che gli chiese quale campione fosse fotografato nel poster della sua camera, rispose: "Il poster? Con Giuseppe non avevamo nemmeno la camera, dormivamo nel tinello". Altro che piccolo, questo è un grande.

    Marco Bucciantini

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