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  • Bucciantini: Mancini, serve l'artigiano

    Bucciantini: Mancini, serve l'artigiano

    Le squadre presentano molti giocatori nuovi, e anche molte idee nuove, come l’Inter che sembra aver preso un sentiero interessante e faticoso. Per muovere un po’ l’attacco (e calcolando anche l’impegno di Coppa Italia) Mancini toglie Icardi e con Palacio cerca di aiutare gli inserimenti degli esterni. Fu anche una nostra speranza nell’ultimo pezzo ma non ci sentiamo in colpa: è una strada da battere, con pazienza e soprattutto sperando in prestazioni individuali più oneste e orgogliose. Aver di fronte il 4-3-3 del Sassuolo (uno dei più rodati e metabolizzati) è stato come guardarsi allo specchio e vedersi più brutti. Ma può servire a capire, e non è detto che basti perché se l’Inter crede in questo percorso, deve rivoltare molte cose. Nei primi due gol, che di fatto decidono il risultato e l’umore della partita, mancano le marcature: c’è spazio per Missiroli, che può crossare, c’è un metro per Zaza, che può avvitarsi e tirare, c’è il tempo per Sansone di avvicinare l’area, metterla sul piede giusto e tirare. L’Inter non era partita male, ma non può lasciarsi abbordare così, serve più intensità nel reparto e in tutta la squadra. 

    CIAK NON SI GIRA - Poi c’è quel centrocampo che non ha ragione di esistere dove il regista è solo un modesto mestierante della difesa, al massimo dell’interdizione (ma statica), e gli interni – che nel 4-3-3 dovrebbero divorare il campo, accorciare, aggredire, permettere la transizione breve che s’addice ad attaccanti come Shaqiri e Podolski – sono invece due palleggiatori di diversa impronta ma medesimi limiti: la pochezza nelle fasi senza palla e la tendenza a ignorare i tempi di gioco, e costruirli a piacimento. Soprattutto, non possono essere Guarin e Kovacic a guidare il pressing del reparto: hanno qualità da collocare (e non è facile, già ci si è ammalato Mazzarri), è un lavoro duro, forse inutile. Infine l’attacco: ogni intenzione è depressa da questo Palacio, davvero inesistente in quel territorio che sapeva dominare in lungo e largo, in quel lavoro di appoggio alla manovra e profondità della stessa che sapeva coniugare senza sosta. Podolski poi sembra più timido di Shaqiri ma tutta l’Inter deve accendersi insieme. Ci sono buoni momenti ma mai continui, è ancora netta l’impressione di giocatori “scritturati”, affatto naturali: sembra una recita più che una partita. 

    MAZZARRI-MANCINI - Il cambio di allenatore ha avuto per ora un solo merito: togliere alibi alla società. La grandezza è stata perduta e va riconquistata. Non è data, né concessa dal blasone. Mazzarri non era il colpevole della classifica, eppure andava tolto da lì perché sembrava aver “foderato” la squadra, averla chiusa in un limite tattico invalicabile, quasi ossessivo. Però Mazzarri non nuoceva alla classifica, cosa che invece può accadere a Mancini proprio perché tenta di rompere certi limiti, cercando anche di chiamare qualche pseudo fenomeno a un lavoro più ampio. Questo è giusto, e la società sembra assecondare ma non può negarsi che serve tempo e fortuna, i reparti da rifondare sono tutti, si è cominciato dall’attacco perché mettere in campo una punta è più facile, perché le occasioni di mercato vanno colte ma adesso (a giugno) bisognerà incidere altrove. Intanto, Mancini deve dimostrare qualcosa, al di là delle belle intenzioni, già testimoniate e riconosciute: il suo ultimo decennio è stato lussuoso, pieno di campioni autentici, gente che in campo risolve e semplifica. Lui è stato bravo a gestirli, come fu bravo a Roma con la Lazio a imprimere qualcosa di riconoscibile. Ma la carriera non gli ha chiesto troppo in costruzione, non ha avuto bisogno di troppo lavoro di miglioramento individuale e dei reparti. Oggi all’Inter serve un po’ di artigianalità, serve una profondità di mestiere che Mancini deve dimostrare. E dopo questo – solo dopo – le valutazioni saranno precise per andare a comprare quello che manca. Sul campo emiliano, sembrava mancare francamente troppo.

    MERCATO DA BRIVIDI - La proprietà dovrà essere forte, valutare tutti i livelli, e non delegare. Servirà cinismo, bisognerà chieder conto a chi ha cercato indefessamente M’Vila, per mesi, e mesi, come se fosse il giocatore decisivo: non ha ritmo, non sa passare, non sa tirare. Questo si è visto. Ma è solo un esempio. Però in quest’ultimo tuffo di mercato, dove frullano giocatori come se piovesse, le domande sulla qualità dei dirigenti dovrebbero tormentare maggiormente chi finanzia le squadre. Quando scrivemmo che il mercato estivo non aveva aggiunto niente a nessuna delle squadre migliori, eccetto la Lazio, e dunque era stato pressoché inutile, fummo criticati nei commenti: eppure il campo ha mostrato che si è comprato senza senno, doppioni, presunti affari low cost, scambi e contro scambi. Scrivemmo anche che c’era una strana penuria di terzini destri, cosicché molte squadre giocavano a tre in difesa per necessità, ma che nei campionati europei che stanno staccando la serie A si difende a “quattro”, per permettersi poi gli esterni alti, vero motore offensivo di un’idea moderna di calcio. Guarda caso un numero “2” giovane e forte c’era, ma l’ha comprato il Sassuolo (Vrsaljko), la Lazio si è rifugiata nel mestiere di Basta (dacché l’Udinese, con la solita lungimiranza, aveva già allevato Widmer). La Fiorentina è ancora lì che cerca, e intanto gioca con il 3-5-2, così facendo è costretta a tenere in panchina una quantità industriale di attaccanti di perimetro. Montella, per tornare al lavoro dei dirigenti, nelle ultime tre sessioni di mercato si è visto infilare nello spogliatoio circa 15-20 giocatori, nessuno migliore dei titolari che aveva. Ha cinque attaccanti mancini per un solo posto da seconda punta accanto a Gomez/Babacar. Però se Pizarro ha un raffreddore la squadra s’inceppa perché nessuno sa lavorare in mediana: chi ha comprato Badelj (l’acquisto più caro delle ultime due sessioni di mercato) merita la stessa valutazione di chi ha spacciato M’Vila per un campione. Poi, Montella deve ritrovare quel coraggio e quel colpo d’ala del primo anno fiorentino, invece di sostituire Diamanti con Kurtic, e finire una partita con un uomo in più e un solo attaccante in campo. L’impressione – per i viola – è che un’ottima squadra, due anni fa vicina al vertice, è rimasta medesima. Soffrendo dunque la ripetitività tattica, la consunzione di qualche titolare, perdendo via via qualcuno di bravo (Ljajic, Cuadrado) e riempiendosi di panchinari: quella breve distanza dal vertice si è divaricata. La classifica è ancora decente, se non proprio buona, ma è un demerito delle milanesi, soprattutto. Perfino quelle davanti lasciano illusioni anche se il Napoli sta chiarendo di possedere il posto in Champions ben più di quanto la classifica raccontasse. Qui gli errori estivi sembrano arginati: i due acquisti di gennaio – Strinic e Gabbiadini – sono titolari (o comunque nei turni principali), ma il Napoli nei suoi alti e bassi ha comunque una sua identità in cui collocarsi è più semplice. Loro due sono “rimedi” a incidenti altrui (Insigne) e impegni africani (Ghoulam), ma la reazione societaria alle necessità è stata pronta e all’altezza, come invece non fu ad agosto. 

    IL DISAGIO DI GARCIA - La Roma ha spolpato l’attacco per rifarlo daccapo: tanto per dire che sbagliano anche i migliori, sui tempi ci sarebbe da ridere: una squadra che lotta per lo scudetto si è ritrovata senza Gervinho e Destro (e non per infortunio, ma perché altrove) in una partita dove – guarda un po’ – l’attacco ha fatto scena muta. In questa ristrutturazione, c’è dietro anche un disegno tattico di Garcia, che spera in Doumbia di sommare le virtù sparse in tutti i suoi attaccanti: la capacità di muoversi in profondità di Gervinho, i gol di Destro, il lavoro sui lati di Ljajic. Ha comprato un “riassunto”, per semplificare le scelte, per amalgamare meglio i giochi d’attacco, così avari negli ultimi tre mesi. È  impossibile avere ambizioni massime senza punti di riferimento indiscutibili in quel reparto. L’attesa per Doumbia è assai maggiore di quanto di pensi: quel giocatore di riferimento non può essere Gervinho (che può essere spalla – magnifica spalla – di qualcuno che segna, ma non uomo reparto). Totti può esserlo per personalità, non più per numeri, e Garcia non può trattarlo come un pischello: o ci crede, e aspetta da lui le intuizioni decisive, o costruisce un’altra Roma. Tenerlo in campo come il primo da togliere in caso di necessità è inutile, e un po’ irriguardoso. Non per lesa maestà, ma per motivi tattici: avere in campo Totti significa chiedere un lavoro particolare ad altri giocatori, e preparare una squadra sui tempi di gioco che Totti può accendere. Totti in campo o è importante o è inutile, perché ormai trascura molto lavoro. L’unico ruolo che non può occupare è quello transitorio. Arriverà anche Ibarbo, altro attaccante abile a sfinire i difensori, ma poco aduso al gol. Il dubbio di ulteriori acquisti di complemento ci resta, così come la curiosità di essere sbertucciati dalla realtà. E anche per Garcia c’è qualcosa da dimostrare. 

    Marco Bucciantini

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