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  • Salah, l'ufo caduto sulla Serie A

    Salah, l'ufo caduto sulla Serie A

    È arrivato l’ultimo giorno, Mohamed Salah, come un rimedio disperato o un regalo accettato controvoglia. È arrivato così: bollato di antisionismo, perché quel giorno in Svizzera non porse la mano ai calciatori d’Israele, e al ritorno disse che per lui quella terra era la Palestina. È sempre minata la frontiera che corre fra l’antisionismo e il rifiuto di un popolo, ma è serio (per chi riferisce) tenerla presente, e distinguere, perché non è la stessa cosa, perché proprio l’atrocità della Storia (con la “s” maiuscola) impone delle differenze. Andò poi a giocare per un figlio degli ebrei russi, Roman Abramovich,  e non patì contraddizione: e se crediamo alle differenze, non ci fu opportunismo – e certo, ci fu un gran guadagno.

    Firenze ogni tanto sussulta della sua storia, anche più recente, come punto d’appoggio per chi cerca posto a due Stati, in quel pezzo di terra: infatti, fu la prima domanda per Salah: non se avrebbe portato la squadra in Champions, non sul dubbio se Mourinho fosse simpatico o antipatico. Gli chiesero di lui, di lui e Israele. Arrivò l’ultimo giorno perché certi destini si rivestono di romanzo: il Chelsea doveva fare posto a Cuadrado in un attacco già numeroso e doveva cercare di capire bene le qualità dell’egiziano, per cui aveva speso, e per il quale non aveva trovato troppi minuti. Poi sicuramente ci sono di mezzo anche finezze contabili, e necessità di evitare pastoie internazionali, per trasferimenti allestiti all’ultimo tuffo. In più non tutti i dirigenti della Fiorentina erano convinti di accasarsi l’ennesimo attaccante, l’ennesimo mancino: era appena arrivato Diamanti, c’era già Ilicic – che aveva testé rifiutato il trasferimento – e poi Bernardeschi, giovanotto in convalescenza, e poi Giuseppe Rossi, ragazzo in lungodegenza: tutti mancini. E invece arriva Salah, anche lui. Quinto mancino, decimo attaccante in rosa! E così in Serie A è caduto un campione.

    Per certi giudizi non si può aspettare: serve il coraggio di dirlo, subito, una visione dopo due controlli di palla, due idee, una fuga, un tiro. Già aver atteso il quarto gol, in sei partite giocate a morsi, è un difetto di avidità, di ristrettezza. Salah è campione, autentico e veritiero depositario del segreto del calcio. Festeggia Firenze e dovrebbe farlo qualunque appassionato: il campionato italiano ha bisogno di questi giocatori. Assumono in sé molta bellezza stilistica, e promettono equilibrio di forze, e dunque propongono sogni: la corsa al terzo posto per la Fiorentina con Salah è più credibile, la competitività in Europa è più alta. Lo ha cercato la Roma, senza dubbio: e i giallorossi con Salah sarebbero oggi più pericolosi per la Juventus. La classe riflette puramente il canone estetico ma è sublimata dalla praticità. I tifosi possono tornare allo stadio, per uno così.

    È nel posto giusto: da tempo, la Fiorentina con Montella ha ritrovato orgoglio e blasone. È fiera ed è ammirata per il suo gioco, appena scaduto nel manierismo nel 2014, ma rispolverato in una versione 2.0 che ha previsto qualche aggiornamento nel legare gli attaccanti alla manovra (e viceversa). Però a Firenze mancava Salah. È una maglia che hanno avuto i fuoriclasse, spesso “superiori” alla squadra. I campioni sono sempre fondamentali all’identificazione e all’immaginario collettivo, anche nei giochi collettivi. Antognoni, Baggio, Batistuta (e Rui Costa, in una simbolica totalità, il numero 9 e il numero 10, cioè tutti i sogni sognabili) sono stati anche un modo fiorentino di abitare il calcio, di restare aggrappati al calcio. Recentemente è stato più difficile elevare qualcuno: Toni è stato devastante e passeggero, per indole. Mutu è stato delizioso, decisivo e traditore, perché quand’era tempo di raccogliere la grandezza, si è perso nelle sue debolezze. E gente così non sarà mai bandiera. 

    Sarebbe folle adesso vedere un filo fra questo passato e Salah: e ancora non siamo matti. Qui siamo agli inizi di qualcosa che potrebbe evaporare alla svelta perché la modernità consuma tutto, e soprattutto perché un mese da fenomeno basta per invogliare, ma adesso questa voglia, questa curiosità deve sedimentarsi, avvalorarsi, diventare patrimonio della squadra (in tutti i sensi), poi di una città, poi di un marchio che sta dimenandosi a pelo d’acqua in uno stagno scuro, ed è la Serie A.

    Però c’è Salah (e anche Shaqiri, per esempio: entrambi giocavano a Basilea, ma è così lontana Basilea per i nostri osservatori?). E con l’egiziano arriva il tempo nuovo delle impressioni, delle suggestioni: è talmente rapido nel controllo palla, e nel realizzare le idee (anche in successione) che attraversano la sua testa, che perfino emerge da scontri fisici che lo vedrebbero spacciato. Resiste ai difensori, anche a due alla volta. La palla è sua. Ha un concetto magnifico e primitivo di calcio, ma lo salva la considerazione estrema e decisiva della porta: punta sempre a quella, il suo gioco sviluppa verso il gol. Ha esordito con Babacar, duettando in modo così limpido da sembrare irreale: gol di Baba e gol di Salah, confezionato insieme. Ha giocato 10’ con Gilardino, e ha segnato, penetrando in verticale e usando Gila da sponda. Ha giocato con Gomez: gol del tedesco e gol di Salah, anche questo confezionato in duetto. Per necessità e malasorte, ha giocato da solo, a San Siro: segnando: non era facile, sembrava facile, c’erano 10 centimetri di posto fra Handanovic disteso, il palo, il difensore, eppure va sulla palla e calcia come se quel pertugio gli sembrasse infinito. 

    Quindi è almeno evitabile una delle più demenziali domande da sala stampa: con chi ti trovi meglio? Si trova meglio con la palla: è naturalmente sua. La corteggia, la porta a spasso, ma sa cederla, sa impostare un gioco di reparto. Davanti a certe sensazioni – l’ultima volta fu guardando Jaime Rodriguez segnare al Giappone, nei recenti Mondiali – sovviene un libriccino di vent’anni fa, un dialogo sul calcio e sui campioni che scrissero assieme Carmelo Bene ed Enrico Ghezzi: s’intitola come questa rubrica, che è un ossequioso omaggio a quello scritto, “Discorso su due piedi”. Quel genio indiscutibile di Bene trovò nella sua fantasia la descrizione di Romario, di quel modo di giocare, “un velo”, disse, per come riusciva a superare gli avversari, a valicare lo spazio. Vi aggiunse un tempo musicale, che è davvero il documento d’identità dei fuoriclasse, o meglio, dei giocatori fuori dal comune: “giocare in levare”, cioè attaccare dal tempo debole, dal tempo assente, dal tempo dopo (o prima) quello della battuta. Il campione sa giocare in controtempo, sa anticipare, sa tirare – per esempio – in corsa, senza accorciare il passo (pensate a Baggio), sa decidere prima di controllare, sa beffare il difensore sulla metrica. Entra nell’azione in “levare”. Adesso, guardate Salah.

    Senza chiedervi troppo quanto servirà per riscattarlo, quale furberia avrà preventivato Mourinho per riaverlo, o quanto durerà questo suo magnifico impatto: lì, nella costanza, si misurerà il suo lascito in questo sport, e lì troveremo poi l’aggettivo definitivo. Adesso è più facile, è più semplice: è tempo di promesse, è un tempo felice, oltretutto è gratis, è una cambiale che scade lontano, e che vale come un investimento. Ma non parliamo di soldi, parliamo del segreto del calcio.

    Marco Bucciantini

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