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  • Bucciantini: Totti vero 9, Neuer n°1

    Bucciantini: Totti vero 9, Neuer n°1

    • Marco Bucciantini
    Due giocatori, Totti e Neuer. Tutti parlano del primo, e di un autoscatto più che dei gol. Nessuno riuscirà a parlare del secondo perché ancora una volta il Pallone d’oro resta fra i soliti due. Dunque parleremo di Totti - ma non di quella foto bizzarra, che ha raccolto commenti, approvazioni e ammirazioni, tali da sfiorare Leonardo da Vinci. E parlaremo di Neuer, un’atleta di livello straordinario.

    Su Totti, che segna pur sempre i primi due gol su azione del suo campionato, e siamo ormai a metà torneo, ci torniamo con un’analisi provocatoria, che già scrivemmo qualche giorno fa: l’impressione è che l’assenza di Gervinho tolga impatto alla Roma ma distribuisca meglio il lavoro, e permetta ad altri di occupare spazi importanti davanti alla porta avversaria.

    Nell’assemblaggio ideale della coppia d’attacco della Roma si è portati a pensare che la ridotta mobilità dell’uno (Totti) sia compensata dall’immenso volume di gioco dell’altro. E che l’assenza di visione (del campo, degli altri) di Gervinho, sia surrogata dall’idea sempre giovane di calcio di Totti, che invece attiva gli altri ancora come pochi sanno fare, anche da fermo. Sarebbe dunque un completamento ideale ma in realtà non è così. Lo abbiamo già scritto e denunciato: non è una coppia d’attacco credibile perché in sostanza non sforna quel numero di gol e assist che si conviene a chi s’intesta i giochi d’assieme del reparto offensivo. Infatti c’è un solo gol su azione segnato dalla coppia - quando è schierata insieme: è quello di Gervinho contro l’Inter, e tra l’altro in quel caso Totti è marginale nell’azione (rifinita da Pjanic e Ljajic). L’altro gol di Gervinho (contro la Fiorentina) arriva con Totti già sostituito. E gli altri gol di Totti sono su rigore (quello contro il Chievo senza Gervinho in campo). Proprio quella contro i veneti fu, prima di quella con Lazio di domenica, la partita - comparando i quotidiani e i giudizi dei commentatori - giudicata come migliore del capitano: appunto, senza Gervinho. In breve, una piccola sentenza: una coppia che non confeziona nemmeno un gol per lavoro diretto in tutto un girone di campionato, e ne segna comunque appena uno in presenza contemporanea, è da disfare, subito. Non funziona. Specie se l’ambizione è di vincere lo Scudetto.

    La nostra idea di fondo resta la solita: negli squadroni i giocatori troppo dominanti sono controproducenti. È un sospetto che riguarda perfino Nainggolan, ma è ingiusto insistere contro il miglior giocatore per rendimento della Roma di questa prima parte di stagione. Però anche lui fa una parte troppo grossa, lavoro tutti i palloni, togliendo protagonismo a giocatori che se calati meglio dentro il match possono scombinare gli avversari. Cuce e governa il gioco, riducendo Pjanic. Si frappone agli avversari, deprimendo De Rossi. S’inserisce a rimorchio delle azioni, ma in quello deve tornare a tuonare Strootman. Riesce a farlo perché è forte, fisicamente, mentalmente, tecnicamente. Nainggolan è un grosso giocatore che va semplicemente “calmierato” perché la Roma ha bisogno del contributo di tutti: strafare è un vezzo da squadre con obiettivi minori.

    Per Gervinho il problema è più difficile da risolvere: ha tare più complesse da disciplinare: purtroppo, non vede l’intorno. E tende a sbagliare la scelta finale, decisiva. Il tiro è tremolante, l’assist è sempre ritardato, anche quando è magnifico per preparazione e lavoro. Gervinho s’intesta la manovra ma non la finalizza a dovere. Certo, il suo agire fa disperare i difensori, ma i numeri, la quantità che porta a casa è ridotta. Ci sono altre grandi squadre che hanno attaccanti (per lo più esterni) così dominanti che però raccolgono da loro almeno 20 gol a stagione. Oltretutto, e questo si è visto nel derby, Totti può dire ancora qualcosa, sempre da falso centravanti, ma con maggiore frequenza dell’area, come era ai tempi della Roma di Spalletti, quando Taddei e Mancini lavoravano larghi, ma con grande considerazione delle presenze centrali.

    E allora una soluzione potrebbe essere quella di andare con Ljajic e Iturbe sulle corsie inverse alla loro natura, per scatenare i loro tiri: Ljajic ha sempre dato il meglio partendo da sinistra, Iturbe a Verona svariava anche a destra, per cannoneggiare col sinistro. Loro hanno la tecnica per vedere anche gli altri. Certo, così la Roma rischia di perdere lunghezza, distensione nella manovra, ma può sviluppare un gioco diverso, più corto, più vario, e chiamare all’affondo gli esterni bassi, magari provando a pensionare Maicon, insistendo su Florenzi tuttocampista.

    La crisi di Destro (o più che altro la poca stima ambientale nei suoi confronti), non lascia dubbi sul terzo attaccante: Totti, appunto, che tra l’altro domenica ha segnato due gol da centravanti, quelli che Gervinho non sa fare. Altrimenti, se Garcia vuole imprimere Gervinho nelle partite, può decidere di formare un’altra coppia d’attacco: accanto all’ivoriano ci vorrebbe il classico uomo d’area di rigore, un Inzaghi d’annata, capace di vivere dello sporco e della confusione che l’altro genera, del panico delle difese squilibrate da Gervinho. Insomma, accanto a questo portento servirebbe un uomo-gol che non si nutre di troppi palloni, ma che sbrana e converte quelli che capitano.

    In Serie A ci sono molte squadre - anche ambiziose - che faticano nell’assemblaggio degli attaccanti: la Fiorentina, dove tutti pensano e praticano un calcio opposto a quello necessario a Gomez, che infatti è intruso. L’Inter, che adesso Mancini sta aggiustando ma che non poteva proporre insieme Osvaldo e Icardi, medesimi anche nei difetti, e pochissimo propensi alla quantità, a fare d’appoggio alla manovra: Podolski e Shaqiri serviranno proprio a questo, a legare la squadra al centravanti (che magari sarà Palacio, specie se gli esterni troveranno la porta…). Nel Milan il migliore (Menez) è anche il peggiore per costruire un gioco d’attacco corale. Il Napoli ha uomini per fare tutto, ma curiosamente, per ora, Callejon e Higuain si sono divisi la stagione, e non l’hanno vissuta insieme. Sono problemi individuali e sono anche banchi di prova per i tecnici.

    Neuer, allora. Gli avrei dato il pallone d’oro perché Ronaldo ne ha già due, perché Messi ne ha già troppi, perché entrambi sono feticisti e produttori seriali dei loro primati, e in questo sono sostenuti da due potenze del calcio, che probabilmente vincerebbero anche senza di loro (anzi, almeno nella Liga il Real Madrid con Ronaldo è perfino sottomedia: un campionato vinto su cinque). E non si premia chi ha giocato la manifestazione più importante (il Mondiale), senza dare segnali di magnifica presenza.

    Premiare Neuer era onesto, lineare, limpido sotto tutti i punti di vista: è un fuoriclasse, ha vinto con il club (tutto, ma proprio tutto, negli ultimi 20 mesi), ha vinto il Mondiale, rappresenta un calcio perbene e dominante. È banale un trofeo che da sette anni viene (con)diviso fra due persone, e chi dei due ha perso per ben sei volte è stato comunque secondo. È una riduzione moderna dello sport, è un convenzionale appiattimento pubblicitario. Certo, sono i due migliori in circolazione,  ma intanto il Mondiale lo hanno in un certo senso sbagliato (anche Messi, perché la sua assenza dal gol in tutte le quattro partite - dagli ottavi in poi - della fase finale, testimonia e conferma una lacuna della sua carriera: il premio come miglior giocatore del Mondiale fu un’offesa a James Rodriguez e a una mezza dozzina di tedeschi).

    Due fenomeni, due fuoriclasse indiscutibili ma che hanno mancato di elevare le loro Nazionali a risultati migliori di quelli raggiungibili anche senza di loro. O comunque, non così bravi a marcare la differenza in mancanza di quello straordinario supporto di Real e Barcellona. Ovvio, anche Neuer ha vinto tutto perché intorno ha campioni, e in quantità. Ma proprio perché questa considerazione non era ormai più discriminante, il Pallone d’Oro doveva tornare a essere più curioso, più sorprendente, più visionario. Un tempo fu premiato Pablito, in un anno in cui sostanzialmente giocò bene tre partite. Forse quelli erano azzardi che oggi uno sponsor (per dire) non gradirebbe. Forse è difficile vendere le magliette di Neuer, o denudarlo per pubblicizzare un profumo. All’albo d’oro manca qualcuno: un tedesco, così come uno spagnolo, nel 2008, o nel 2010: Xavi, Iniesta, a scelta, e parliamo di due dei migliori centrocampisti di questi ultimi 20 anni, capaci di connotare indelebilmente una squadra che passerà alla storia. Quel tedesco doveva essere Neuer perché è riuscito (come altri quattro-cinque portieri nella storia del calcio, non di più) a emozionare come se dribblasse, o rovesciasse un pallone. Perché ha aggiunto interpretazione al ruolo, ampliandolo di molti metri nel campo. Perché è fuoriclasse autentico, e perché non sono campioni solo quelli che la buttano dentro.

     

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