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Calcioscommesse: Faletti accusa i divi del pallone

Calcioscommesse: Faletti accusa i divi del pallone

Lo scrittore Giorgio Faletti racconta su La Repubblica il suo romanzo sul calcio travolto dalle scommesse: "Ci sono casi in cui la preveggenza ha il solo risultato di lasciare la bocca amara. Una felice intuizione narrativa che si trasforma in romanzo lascia sempre e a buon diritto un senso di orgoglio in un autore. La delusione dell'uomo annulla la soddisfazione dello scrittore quando ci si accorge che il calcio scommesse è una squallida realtà. Quando ci si accorge che certi personaggi sono usciti dalle pagine di un libro per indossare abiti umani e volti conosciuti e con quelli nanno tradito, per fame di denaro e sete di astuzia, le persone che avevano dato loro quei vestiti firmati e quei volti famosi. 

A questo punto serve una premessa. A livello personale sono cresciuto nel culto dello sport, quello praticato in prima persona e quello frequentato da tifoso. Nel primo caso, per mia fortuna, ho avuto accanto persone che mi hanno fatto capire che un campo di gara poteva essere un luogo ideale dove battere un avversario e non il posto in cui si incontrava un nemico da sconfiggere con ogni mezzo, non importa se lecito o no. Nel secondo caso, sempre per mia fortuna, ho frequentato ambiti sportivi in cui il tifoso era semplicemente una persona che la pensava in modo differente da me, una persona dal quale ricevere e al quale rivolgere battute, nel caso di un evento favorevole o contrario. Per mia struttura mentale sono sempre stato molto più attratto dagli sport individuali che non dagli sport di squadra: per questo motivo il calcio non è mai stato al top dei miei interessi anche se, come quasi tutti, ho una squadra del cuore. L'ho quindi vissuto in modo più freddo, più distaccato. 

Questo ha fatto di me una persona poco faziosa e molto più ancorata alla realtà dei fatti che non all'offuscamento che inevitabilmente la passione porta con sé. Ad esempio, mi sono spesso chiesto, alla luce dei pochi mezzi a mia disposizione, perché non si decidono a mettere la moviola in campo, preferendo stigmatizzare questo o quel colpo di fischietto. A volte, in certe trasmissioni sportive mi trovo a vedere e ascoltare otto persone che, dopo diversi replay, non riescono a mettersi d'accordo se un'entrata sia passibile di rigore o no. Mi chiedo quanta percentuale di errore possa genericamente essere concessa agli arbitri, che vedono l'azione una sola volta e spesso da un punto di vista sfavorevole. Nello stesso modo mi trovo a chiedermi, da cittadino e non da tifoso, che trattamento potrebbe avere una persona che entrasse in una banca con un casco e una spranga in mano e perché lo stesso trattamento non venga applicato a chi si aggira conciato in quel modo sugli spalti di uno stadio. Mi illudo che non ci siano genitori che ascoltano con un sorriso compiaciuto i propri figli urlare da una tribuna parole che sarebbero punite nell'ambito di una famiglia. Panem et circenses, diceva quel tale. In questo periodo, che di panem ce n'è in giro poco, mi sembra più che giusto il diritto ai circenses. Ma non credo che per questo motivo qualsiasi cosa possa essere sacrificata al dio dello sport, del calcio in particolare. 

Non viviamo tempi facili, inutile ripeterlo. La parola crisi ha riempito la bocca dei politici e svuotato le tasche degli italiani. Ho visto e sentito gente indignarsi per tutto: gli stipendi dei parlamentari, dei manager, dei parrucchieri di Montecitorio, degli uscieri del ministero e via discorrendo. Ho letto missive ai giornali ed esternazioni di opinionisti più o meno autorevoli che lamentavano come in un tempo di congiuntura pari a quello che stiamo vivendo, qualcuno possa parlare di certi compensi e di certe cifre, senza nessuna cura degli italiani che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese. Non ho notizia di qualcuno che si sia indignato per le somme che riportano i giornali sportivi, quando parlano di compensi annuali ai calciatori che, per la maggior parte della gente, non rappresentano le somme percepite in un'intera vita. Non sono così ingenuo da non rendermi conto che in qualche modo l'eccellenza deve essere premiata: questo è il motivo per cui una caricatura a Piazza di Spagna vale qualche decina di euro e L'urlo di Munch qualche milione di dollari. 

Tuttavia, per quanto riguarda gli dei del calcio, forse è il momento che quelli che scendono in campo la domenica o qualsiasi altro giorno comandato si rendano conto che la fama, il denaro, la fidanzata modella, la fuoriserie hanno una contropartita. È il momento che si rendano conto che per quei bambini e quei ragazzi seduti sugli spalti loro sono dei punti di riferimento, lo stesso punto di riferimento rappresentato da un qualunque educatore. Ognuno è una sorta di padre putativo e in quanto tale ha una precisa responsabilità perché ognuno, nessuno escluso, rappresenta un modello daimitare. Se i tatuaggi, le creste, i capelli di tre colori si concedono alle rock star non vedo perché non si debbano concedere ai divi del pallone. Quello che non si concede è vendere una caricatura comperata a Piazza di Spagna come se fosse un quadro d'autore, perché la loro influenza autorizzerà migliaia di persone a pensare che è consentito farlo. 

Due anni fa ho scritto Tre atti e due tempi (Einaudi), un romanzo che parlava di illeciti nel mondo del calcio. Era un pretesto per raccontare un rapporto fra due generazioni. Ora quei fatti sono per l'ennesima volta di attualità e ancora si tratta di un rapporto fra generazioni, oltre che di un rapporto con la magistratura. È ovvio che queste righe non possono e non devono contenere una condanna per persone non ancora dichiarate colpevoli o per fatti non ancora accertati del tutto. Il rimedio sarebbe peggiore del male: tutti sanno quanto la caccia alle streghe possa essere umiliante sia per la preda che per il cacciatore. Per quanto riguarda me, mi auguro che tutto svanisca in una bolla di fumo e che un libro torni ad essere un libro e non un avvilente registro degli indagati. 

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