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  • Corioni:| '20 anni di Brescia'

    Corioni:| '20 anni di Brescia'

    • di Cristiano Tognoli

    Corioni: "I miei primi 20 anni di Brescia".
    Era il tempo delle «Notti magiche inseguendo un gol», quelle cantate dal duo Bennato-Nannini e vissute da Schillaci, Baggio, Vialli e Giannini. Era l'Italia bella e sfortunata di Azeglio Vicini. Era anche l'estate in cui l'Iraq invase il Kuwait, un'occupazione che sfociò poi nella Guerra del Golfo. In quei giorni l'impiegata ventunenne Simonetta Cesaroni venne assassinata nell'ufficio di via Poma dove lavorava.

    Era l'estate del 1990. Una vita fa, quando venne interrotta la produzione dei 45 giri perché il mercato non li richiedeva più. Il 26 luglio di quell'anno Gino Corioni diventava proprietario del Brescia calcio tramite una fiduciaria. Ne assumerà la carica di presidente solo un anno e mezzo dopo, riuscendo a disfarsi del Bologna. Vent'anni più tardi, quasi come Dumas, l'uomo di Ospitaletto ci racconta i retroscena di quella trattativa e venti campionati alla guida delle rondinelle. Tra serie A, B e persino il rischio della C. Un Gino Corioni che a 73 anni non ha perso il gusto della sfida e la voglia di rilanciare.

    Presidente, perché comprò il Brescia?

    «Mi sembrava la cosa più giusta da fare. Il calcio è emozione, sentimento. Non c'è solo il calcio che nella vita ti dà gioia, ma è una delle componenti che ne dà di più. Il calcio è metafora di vita e ti fa capire quanto sia faticoso, ma anche bellissimo vivere ogni giorno».

    Quale fu la scintilla che la convinse a lasciare Bologna per la sua città?
    «Furono due telefonate. La prima di Luigi Lucchini. Mi disse: "tu sei l'unico bresciano che sa fare calcio ad alti livelli e te ne stai a Bologna. Che senso ha? Vieni qui, mi metto anch'io al tuo fianco. Faremo grandi cose"... Mi chiamò poi un giorno anche il giornalista Giorgio Sbaraini e mi spiegò che suo cugino Luciano Ravelli, allora presidente e proprietario del Brescia, era in seria difficoltà. Non ho mai verificato se fossero davvero cugini, ma sta di fatto che mi feci convincere ed... eccomi qua».

    Lo rifarebbe?

    «Credo di sì. Il Brescia in quegli anni vivacchiava in serie B e si salvava solo a un paio di giornate dalla fine, vincendo partite contro squadre ormai senza obiettivi. Stava facendo una brutta fine, non si poteva andare avanti a lungo. Certo se mi fossi limitato a vendere il Bologna adesso avrei in banca almeno 50 milioni di euro in più. Sarei più ricco, ma...».

    Ma?
    «Ma probabilmente sarei meno felice e meno vivo, brillante, attivo. Ho 73 anni, ho sconfitto una brutta malattia uscendone quasi indenne e sono pieno di vitalità. Tutto questo grazie al calcio. Il cervello è un muscolo e se non lo tieni allenato rischi di averlo atrofizzato alla mia età. Io invece (e ride di gusto, ndr) sono ancora un ragazzino. Guardami qua! Quanti anni mi dai? Almeno una quindicina in meno di quelli che ho...».

    Quanto dovette sborsare per prendere il Brescia?

    «Uno sproposito. Diedi 10 miliardi di lire sull'unghia a Ravelli e mi accollai debiti per 17-18 miliardi, che diventarono 25 in poche settimane. Impiegai almeno dieci anni ad estinguere debiti non miei. Quando presi in mano i conti di quel Brescia calcio mi spaventai. Era una gestione folle, che avrebbe portato sicuramente il club ad un triste destino».

    Si ricorda chi era l'allenatore di quel Brescia?
    «Certo: Bruno Mazzia».

    E si ricorda quanto durò?
    «Solo tre partite. Per forza: le perse tutte. Non cominciate però a dire che già allora ero un mangia allenatori. Presi Bolchi e facemmo un campionato tranquillo. L'anno dopo arrivò Lucescu e cominciammo a fare calcio come avevo in mente».

    Mircea rimane il miglior allenatore che ha avuto?

    «Di gran lunga. Fa giocare un bel calcio, vince e lancia i giovani. Cosa può volere di più un presidente?».

    Che differenze ha trovato tra fare calcio a Bologna e a Brescia?
    «Brescia è una città importante per tante cose. Se da Piazza Loggia apriamo un raggio e ci allarghiamo in tutta la provincia copriamo un bacino di 1 milione e 500mila abitanti. È una terra sana, che ha sempre dato giocatori al calcio italiano e sempre ne darà. È una miniera inesauribile. Bologna ha il blasone: sette scudetti, anche se uno solo dopo la Seconda guerra mondiale. I bolognesi sono più orgogliosi di essere cittadini della loro città e di tifare per i colori rossoblù, i bresciani (non tutti per fortuna...) si vergognano invece di dire che sono di Brescia. Se uno straniero gli chiede dove abitano, loro rispondono: vicino a Milano. E poi vanno a vedere Milan, Inter e Juve. Esiste anche un problema più grande, politico. La città di Brescia non si è mai sentita responsabile nella costruzione di grandi opere e così si è fatta superare da Montichiari, per esempio. Guardate il palazzetto, ma anche il Centro Fiera. Che a Brescia è stato costruito solo per non essere da meno. E non apro il capitolo stadio perché ormai sapete come la penso».

    In questi 20 anni più gioie o dolori?

    «Per tutti i gusti. Abbiamo vinto, perso, siamo stati promossi, siamo retrocessi, ci siamo goduti Baggio e tanti altri campioni. Le cinque promozioni in serie A sono state una cosa grandissima, bello anche vincere a Wembley l'anglo italiano, ma non si possono paragonare le due cose. Splendida anche la salvezza con il Bologna all'ultima giornata. Quel giorno al Rigamonti c'erano 30.000 bresciani e almeno la metà versarono, come il sottoscritto, almeno una lacrima di commozione. L'amarezza più grande è stata la retrocessione di cinque anni fa, quando tutta Italia tramava e sperava che la Fiorentina arrivasse ancora in corsa all'ultima partita contro di noi. Ci bastava un pareggio, ma sapevo che non ce l'avremmo fatta. Calciopoli ci ha spiegato perché. Abbiamo ancora una causa in atto e voglio vincerla».

    Il momento più difficile?

    «Il campionato '95-'96. Evitammo la serie C1 solo all'ultima giornata con una serie di risultati rocamboleschi. Se fossimo retrocessi non so che fine avremmo fatto... Quantomeno non avremmo vissuto l'epoca di Baggio perché chissà quanto ci avremmo messo a risalire, ma sarebbe stata dura anche solo ripartire».

    A quali giocatori è rimasto più affezionato?
    «Impossibile dirlo. Ne ho avuti almeno un migliaio. Con tantissimi ancora oggi mi sento. Li ho visti crescere, diventare uomini, farsi una famiglia. E sono quelli che mi rendono più orgoglioso».

    Chi invece l'ha deluso?

    «Alcuni presunti campioni giunti a fine carriera. Bachini, Flachi e Morfeo su tutti. Bortolotti mi ha fatto piangere, credevo molto in lui. Invece a Ospitaletto un anno avevo un centromediano fortissimo. Si chiamava Carlo. Ero convinto che sarebbe arrivato in serie A, ma un giorno venne e mi disse che il suo sogno era fare il bidello. Incredibile. Eppure ancora oggi se andate a Pordenone lo trovate a scuola...».

    In questi 20 anni quante volte è andato vicino a vendere il Brescia?
    «Tante. Ho parlato anche con imprenditori importanti, gente che ha quella disponibilità economica che io non avrò mai. Solo che quando sentivano cosa costava gestire una società si spaventavano. E io rintuzzavo: "se ce la faccio io, figurati tu". E invece niente da fare».

    Con il calcio si guadagna?

    «Nell'ultimo ventennio no, ma con la nuova serie A sì. Bisogna riuscire ad aprire un ciclo, rimanerci per almeno 3-4 anni, ma con i nuovi proventi delle televisioni si può fare un bel business».

    Come s'immagina tra dieci anni?
    «Se nessuno capirà che il calcio adesso rende, m'immagino ancora al mio posto. A quel punto però voglio aver portato il Brescia in Europa League. Una città come la nostra deve stare stabilmente tra le prime dieci della serie A».


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