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  • E Silvio disse: 'Non lascerò mai il Milan'

    E Silvio disse: 'Non lascerò mai il Milan'

    • Marco Bernardini
    Non sono mai stato dalla sua parte e lui l’ha sempre saputo. Un giorno, addirittura, su “Tuttosport” gli scrissi un breve editoriale contro dopo che Bettega era stato trattato come uno straccio dal povero Maurizio Mosca in una delle tante trasmissioni “urlate” prodotte dalla Fininvest.

    Allora, spesso, la domenica pomeriggio partecipavo ad una sorta di “domenica sportiva” condotta da Bartoletti su “Canale 5”. Mi divertito e serviva per arrotondare. Ebbene, dopo quella critica, mi arrivò puntuale la telefonata di Marino: “Mi spiace, sei stato iscritto nella lista nera. Non venire più”. L’avrei dovuta mettere in conto. Per difendere Bettega, poi…ma ero fatto così. Sono fatto così. Non me la presi più di tanto. Era il neo-berlusconismo, baby, mi dissi. Amen.
     
    Il piccolo incidente, comunque, non impedì che il 9 dicembre del 1990 varcassi il cancello di Villa San Martino ad Arcore. Era l’una del mattino, ma il Cavaliere non dormiva. Aspettava. Di lì a poche ore, infatti, la televisione avrebbe mandato in onda le immagini del Milan che, a Tokyo, si giocava la Coppa Intercontinentale con la squadra uruguaiana dell’Olimpia. Berlusconi per motivi di lavoro non aveva potuto seguire la sua squadra. Il mio direttore, Piero Dardanello, era riuscito a concordare un colpo giornalistico davvero forte convincendo il presidente ad accettare la compagnia di un inviato in villa durante la partita. Venni incaricato del servizio e non nego che ero emozionato e anche un poco imbarazzato. Forse, mi veniva da pensare, sono il primo “anarchico” che varca il portone di una roccaforte del centrodestra.

    Berlusconi, allora, non era ancora sceso in politica. Lo avrebbe fatto due anni dopo. In quel momento era “soltanto” un grande imprenditore e il padrone del Milan. Benessere e ricchezza, spalmati con molto buon gusto e senza pacchianeria (il quadro di un celebre fiammingo quasi nascosto in un angolo della parete, tanto per dire), grondavano dall’alto di ogni stanza dove venni guidato da lui in persona. Ricordo che, un poco per l’ora da lupi e molto per distrazione, rischiai di cadere nella piscina attigua alla palestra tanto l’acqua era limpida e ferma come uno specchio. Un paio di tramezzini al prosciutto e una Coca Cola per ingannare il tempo e poi la partita, finalmente, su schermo gigante. Van Basten e Rijkaard celestiali, Maldini fuori in barella, Milan in paradiso. Il Cavaliere, raggiante, mi congedò che stava sorgendo l’alba augurandomi buon Natale e, scherzando, invitandomi a rivisitare le mie idee politiche. Poi, con aria trasognata da innamorato vero, parlando più con se stesso che con me disse una frase che non ho mai dimenticato: “Io e il Milan non ci lasceremo mai”. Scrissi un buon pezzo.

    Sono passati ventisei anni, da quel giorno. Silvio Berlusconi li ha vissuti in maniera a dir poco usurante percorrendoli a cavallo di montagne russe da brividi. Di tutto e di più, nel bene e nel male, come i supereroi della Pixel. Forse troppo per un comune mortale. Gli effetti, ora, si vedono. Anche le sue “parate” pubbliche mostrano il leader dal passo stanco carico, sulle spalle, di mille fardelli che non può più scrollarsi di dosso. Evidentemente il potere, talvolta, logora anche chi ce l’ha o, perlomeno, l’ha avuto. Politicamente la cosa mi è indifferente. Calcisticamente no. L’essere juventino, come lui sa bene, non mi impedisce di provare una espulsione di tenerezza nei confronti del Cavaliere. Una tenerezza che si trasforma in rabbia quando, come tutti, vengo a sapere che i cinesi hanno praticamente messo le mani sul Milan e che Berlusconi attende di ricevere dai rossoneri l’ultimo regalo (la Coppa Italia) per dare l’annuncio ufficiale delle dismissioni sue e della sua famiglia.

    Un’operazione che va oltre il Milan e che offre la fotografia a venire dell’intero calcio italiano. Il “nostro” movimento che è già sufficientemente “occupato” dagli ultracorpi thailandesi, russi, americani, albanesi, arabi e che ora rischia di venir totalmente inglobato da coloro che si apprestano a diventare i padroni del mondo economico e finanziario. Così il calcio italiano smetterebbe di essere tale, per cuore e anima intendo, e verrebbe ridotto ad una infernale macchina per far quattrini e per mostrare potere di immagine nelle mani di imprenditori variamente colorati che nulla possono sapere dell’anima e della cultura di un pallone a loro estraneo.

    Perché, è certo, saremmo noi a dover imparare il cinese e non loro l’italiano. E quei tifosi, pochi mi auguro, che applaudono all’invasione purché arrivando denaro fresco a pioggia arrivino anche i successi farebbero bene a smetterla di rallegrarsi perché, come dicevano i nostri vecchi, meglio pane e cipolla pur di essere felici. Anche all’avvocato Gianni Agnelli e poi al fratello Umberto nei giorni di magra venne suggerito di vendere la sua Juventus. “Mai nella vita, una cosa del genere. Almeno finché ci sarò io…”. Lo dissero tutti e due talmente forte che, oggi, i loro eredi sono fieri di portare avanti quella scelta. Anche Silvio quella notte di tanti anni fa la pensava così. 

    Marco Bernardini

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