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  • Ecco De Rossi| Il predestinato

    Ecco De Rossi| Il predestinato

    Parlare di tessera del tifoso auspicando anche la tessera del poliziotto oppure dire “ho sbagliato io” e non “abbiamo sbagliato noi”, in fondo, è la stessa cosa. Cambiano gli argomenti, ma non cambia la sostanza perché sono due facce della stessa personalità; dello stesso modo di affrontare ogni situazione. Cioè sempre di petto, senza nascondersi; senza scegliere la strada più comoda, quella che ti mette al riparo da spifferi, critiche e strumentalizzazioni. Daniele De Rossi è fatto così, e la meraviglia di chi ancora si meraviglia dei suoi atteggiamenti, non solo verbali, fa un po’ sorridere. Lui non è tipo da zero a zero: meglio vincere o perdere, che bluffare.

    Meglio viversela fino in fondo, costi quel che costi, che vivacchiare nella stabile mediocrità, quella che ti procura facili sorrisi e consensi senza anima. L’altra sera, a Città del Capo, DDR è stato più onesto che sincero: «Sul gol del Paraguay ho sbagliato io, mi capita troppo spesso di perdere l’avversario, non è detto che un buon colpitore di testa sia anche un buon difensore», il suo virgolettato.

    Fosse stato un uomo diverso, si sarebbe lasciato andare alla solita cantilena, all’equa divisione di responsabilità, al volemose bene per non farsi del male. Invece ha voluto dare l’esempio, ha indicato la via, ha dato un segnale forte alla squadra, come se fosse il vero capitano azzurro.

    Non è più il ragazzino di Berlino, quello che mollava gomitate e che faceva fatica tenere a bada i nervi: adesso è uno dei leader azzurri, un punto di riferimento dello/nello spogliatoio, «un giocatore importante», per dirla alla Lippi. Una garanzia, non più un punto interrogativo. Nove gol in azzurro, come Francesco Totti, con quello del “Green Point” di Città del Capo. E l’etichetta di miglior cannoniere romanista in azzurro, in tandem con il suo capitano.

    Il che, per un mediano, non è poi così male. Il primo gol addirittura la sera del suo esordio, a Palermo, il 4 settembre del 2004, contro la Norvegia. L’ultimo, prima di quello di Città del Capo, sempre qui in Sud Africa nella scorsa estate, il 15 giugno, a Pretoria contro gli Usa nella Confederation’s Cup. Si era detto, viaggiando verso il mondiale, che DDR si portava in valigia una stagione deludente, fatta di troppi alti e pochi bassi. Eppure in campionato, il sogno proibito di Josè Mourinho, l’oggetto del desiderio di mezza Europa, aveva segnato come mai era riuscito a fare, 7 reti, nonostante la frattura allo zigomo, i problemi ai reni, quel bozzo sulla tibia e l’impossibilità di prendere antinfiammatori. Lui non ha mai fatto la vittima, ha continuato a pedalare incurante del vento contrario e, con quel gol para guai al Paraguay, ha zittito chi non vedeva l’ora di mollargli un’altra serie di schiaffoni mediatici. Tranquilli, sarà per un’altra volta, tanto lui non cambia.

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