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  • Il fenomeno Marc Marquez si racconta: dal mito Valentino al tifo per il Barcellona, sempre in sella a una moto

    Il fenomeno Marc Marquez si racconta: dal mito Valentino al tifo per il Barcellona, sempre in sella a una moto

    • Federico Polverelli per la Voce di Romagna
    11 vittorie in 13 gare. Se fosse un animale, sarebbe un piranha, tanta è la voracità con cui sbrana ogni Gran Premio che gli si presenti davanti. Se fosse un uomo, avrebbe un nome e un cognome: Marc Márquez. Ma siccome è un alieno, si può tranquillamente chiamare “Fenomeno”. Ha solo 21 anni, ma i panni dell’essere umano li ha dismessi molto presto, quando la storia ha deciso di trasformarlo in fuoriclasse e di incidere precocemente il suo nome nel firmamento del motociclismo mondiale. 

    Quattrocentocinquanta anni dopo quello politico e culturale, la Spagna sta rivivendo un altro “Siglo de Oro”, a livello sportivo, tra calcio, basket, tennis, ciclismo e motociclismo. Buona parte dei meriti vanno alla “cantera” di Catalogna, che anche per i motori partorisce talenti in quantità industriale: Pedrosa, Rabat, Viñales, i fratelli Espargarò, Gibernau finanche Àlex Crivillé, campione iridato in 125 e 500 rispettivamente nel 1989 e 1999. Márquez ne è l’ultimo, per il momento. Avversari in pista non pare avere: a fare “a sportellate” con lui, quest’anno, è rimasto solo il destino. Sicuramente lo sa bene, per questo in gara aggredisce sempre l’asfalto, anche a costo di rischiare la collisione come un mese fa a Brno con Iannone. Del resto, è cresciuto col mito di Valentino, di cui conserva tutti i modellini di moto sulla mensola di camera sua. Ma ora rischia seriamente di fargli le scarpe. Anzi, le ruote. 

    Il circuito di Misano, dove si è corso ieri, è stato intitolato a Marco Simoncelli. Nel 2011, quando è morto, correvate in due categorie diverse. Ma ricorda un episodio o un momento particolare che ha condiviso con lui? 
    “Sì, ricordo che andavamo dallo stesso fisioterapista per un certo periodo. Credo che fosse il 2009, lui era in 250 e io in 125. Mi trovavo bene con lui: era un ragazzo simpatico, molto allegro, con cui si scherzava molto e che sapeva stare bene in compagnia”.

    Ha sempre considerato Valentino il suo idolo. Dall’anno scorso gareggiate nella stessa categoria, ma si aspettava di trovarlo così lontano dalla lotta per il titolo?
    “Veramente no. Però credo che Valentino sia sempre competitivo. È un avversario che non va sottovalutato, può fare la differenza in qualsiasi Gran Premio. E poi ha vinto tantissimi campionati e il fatto che lotti ancora per i primi posti vuol dire che non è ancora stanco”.

    Quando ha capito di avere le potenzialità per diventare un campione?
    “In realtà l’ho sempre sognato ed ero disposto a fare ancora tanti sacrifici per arrivare al livello a cui sono ora. Però il momento decisivo è stata sicuramente la vittoria della 125 nel 2010. Quella è stata la svolta; poi sono andato in Moto2 e il resto è venuto da sé”.

    La Spagna sta vivendo un vero e proprio “Siglo de Oro” a livello sportivo, specialmente nel motociclismo, dove domina pressoché in tutte le categorie. A cosa è dovuto questo successo?
    “Mah… credo a diversi fattori. Innanzitutto, la gente in Spagna fa tanto sport; questo aiuta e stimola la concorrenza. E poi anche il tempo aiuta: da noi si sta bene sia in estate che in inverno. Per quanto riguarda il motociclismo, un grande contributo lo dà la Federazione, che aiuta molto i ragazzini: a quelli che vincono un campionato regala un pacchetto completo con equipaggiamento, moto e licenza, che costa migliaia di euro. Anche io sono passato dal cross a queste categorie grazie agli aiuti del mio Paese. I soldi della mia famiglia non bastavano assolutamente. Se oggi non avessi avuto quei finanziamenti, non sarei qui”.  

    Se Marc Márquez non fosse un motociclista, quale lavoro farebbe?
    “A me piace molto lavorare con le mani, con gli attrezzi, per aggiustare o modificare qualcosa. Forse avrei fatto il meccanico o qualcos’altro comunque sempre legato al mondo delle moto”.

    È nato a Cervera, è catalano e un grande tifoso del Barcellona. In camera tiene anche uno scarpino del suo amico Piqué. “Més que un Club” è scritto sulla tribuna centrale del Camp Nou, perché il FC Barcelona non rappresenta solo una squadra di calcio a cui è richiesto di vincere, ma anche di divertire. Lei si sente “més que un Campeón”, visto che i suoi connazionali, che hanno un palato sportivo molto fino, le chiedono non solo di vincere, ma anche di essere spettacolare? 
    “Sì è vero (ride, ndr), me lo chiedono i tifosi, ma anche la stampa. In pista cerco sempre di dare il massimo, senza mai risparmiarmi. È importante anche questo, non solo avere una buona moto o buone capacità. La gente vedo che mi apprezza. Ho uno stile di guida che piace: determinato, combattivo, ma sempre corretto”.
      
    Il Barcellona quest’anno è più forte o più debole dell’anno scorso?
    “Sinceramente non lo so. Ha perso Fàbregas e Sánchez, mentre Puyol si è ritirato. Però ha preso un grandissimo giocatore come Suárez. Vedremo…”.

    Visto che in questi giorni se ne parla tanto, sulla scia della Scozia chiamata alle urne in settimana, cosa pensa del referendum per l’indipendenza della Catalogna dalla Spagna?
    “Mi dispiace, ma a questa domanda non posso rispondere. Ho la mia idea, ma non posso dirla. La tengo per me”.

    Suerte, Marc.
     

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