Calciomercato.com

  • Fiorentina-Macia, quello che i tifosi non sanno

    Fiorentina-Macia, quello che i tifosi non sanno

    • Leonardo Corsi, agente FIFA
    Le ginocchia tremanti di Grobbelaar  ipnotizzarono Bruno Conti e Ciccio Graziani. Così conobbi il Liverpool una sera d’estate del 1984: fu subito amore.
    Bruce il matto danza sulla linea di porta, milioni di occhi puntati su di lui mentre l’ultimo rigorista sistema a 11  metri dalla gloria o dalla disfatta. La palla scheggia la parte superiore della traversa e vola  via alta. Lo storico capitano  Graeme Souness alza al cielo la quarta coppa dei campioni dei Reds.
    Marzo 2009, Liverpool. In lontananza vedo indicata l’uscita dell'autostrada, il sole è scomparso, l’aria si è raffreddata, il cielo è quello tipicamente grigio di Liverpool. Con uno sguardo al paesaggio attraverso la città per raggiungere il centro sportivo dove si allena la squadra di Rafa Benitez.
    Si apre il grande cancello d’ingresso, procedo timoroso, quasi riluttante all’idea di violare quel luogo sacro. Alla mia destra i campi d’allenamento, distese di prato all’inglese rimandano improvvisamente la memoria alla leggendaria “numero 7” e al desiderio irrefrenabile di segnare un goal alla Keegan. Dopo aver parcheggiato, insieme a Carlo Pallavicino, entro in un anonimo edificio, un fabbricato antistante  i campetti. La segretaria all’ingresso avverte del nostro arrivo e dopo una breve attesa, ci viene incontro il responsabile dell’area tecnica: lo spagnolo Eduardo Macia. Ci accoglie con grande cortesia. Parla correttamente molte lingue, anche l’italiano. E’ appena rientrato col Liverpool da Madrid dove i Reds hanno sbancato il Santiago Bernabeu dodici ore prima qualificandosi ai quarti di finale di Champions.
    Non so molto sul conto di quest’uomo enigmatico che gode della piena fiducia di Benitez. Lo seguiamo al piano superiore, in una sala dove viene servito un discutibile pranzo all’inglese. La stanza ha una grandissima  vetrata  con  vista  diretta  sul campo dove  Gerrard  e  compagni  stanno  svolgendo  l’ allenamento.
    Carlo conversa con Macia, io  osservo rapito verso il terreno di gioco. È in corso la partitella. Lì, in mezzo a tutti svetta Steven Gerrard, con quel suo inconfondibile passo cadenzato. Intanto Eduardo continua a parlare, espone la sua visione di calcio, concetti molto chiari e originali: “tutto nel calcio va fatto con un’idea, con un progetto ben definito”. Adesso anch’io prendo parte alla conversazione.    
    Eduardo è un’enciclopedia vivente. Conosce giocatori di campionati sconosciuti. Sa perfino chi è Floccari, un giovane attacante del Rimini, bassa B (per questo rido oggi quando sento che la Fiorentina vuole italianizzarsi e non avrebbe più bisogno di lui) In testa ha un database, le sue conoscenza spaziano, da numeri e nomi ad attitudini di gioco.  La sua politica è creare un’identità di squadra nella quale inserire pochi mirati elementi.
    Dietro l’acquisto di un calciatore c’è sempre un lungo meticoloso lavoro. Occorre conoscerlo a fondo, seguirlo durante gli allenamenti, comprenderne la mentalità.  Le prestazioni sul campo rappresentano il dato più scontato ed evidente.  Ogni calciatore è prima di tutto un uomo: il fattore emotivo, la sua mentalità sono elementi da valutare approfonditamente  quando si investono milioni. Il possibile errore si annida lì: “È la persona che ti fa sbagliare l’acquisto non il calciatore”.
    Mentre parla traspare una passione grandissima, coinvolgente. Mi conquista definitivamente svelando un retroscena.  Racconta che la Juventus si è mossa su Xabi Alonso; il prezzo è elevato  e per abbassarlo i dirigenti bianconeri  propongono una lista di 5 giocatori tra i quali  scegliere un’eventuale contropartita. Sono nomi altisonanti,  Eduardo storce il naso e replica ai suoi interlocutori: “nessuno di questi. Semmai  potrebbe interessare  un giovane che avete dato in prestito ad Empoli”.  Non credo alle mie orecchie. Si tratta di un nazionale under 21 le cui potenzialità sono ben note, ma  durante  quella stagione  ad Empoli  il suo impiego è stato discontinuo e  inoltre  la squadra  è appena retrocessa. Marchisio il suo nome.
    Adesso Macia ha tutta la mia attenzione, capisco perché Benitez lo abbia voluto al suo fianco. Nel frattempo, concluso l’allenamento, il tecnico spagnolo ci  attende nel  suo studio. In una stanza con moquette color rosso intenso, dietro una modesta scrivania è seduto, ancora in tuta che sistema alcune carte di lavoro. Ci accomodiamo nel salottino tra poltrone e divani, lui ci raggiunge;  la conversazione è informale e diretta, in inglese con sporadiche cadenze spagnole e italiane. Benitez è persona di ottima cultura e buone maniere,  soprattutto sembra molto intelligente. Ma  più lo ascolto più ho la netta impressione che il vero talento sia proprio quel Macia, lì seduto  al suo fianco  in silenzio, come un’ ombra quasi  impercettibile, che gioca un ruolo decisivo.
    L’incontro finisce , ripartiamo, il grande cancello di Melwood si chiude alle nostre spalle.
    Desideravo rivedere Macia.
    Accade a Firenze, alcuni anni dopo. La Fiorentina di Corvino ha perso qualcosa dell'appeal che aveva saputo guadagnare, la proprietà viola inizia a nutrire dubbi su quel sistema di gestione “verticistica”. Si pensa ad una nuova  figura da inserire nell’organigramma societario e inizia a trapelare il nome del giovane spagnolo di Melwood che nel frattempo ha finito di lavorare in Grecia per l’Olimpiakos.
    Con i suoi uomini Eduardo rivolta il mercato alla ricerca dei giocatori più adatti al progetto viola. Conosce molto bene la Spagna ma non trascura l’Italia. Copre i paesi dell’Est alla ricerca di occasioni low-cost, soprattutto nei Balcani. Qui abbonda il talento ma difetta la cultura del lavoro, che invece è vivida nel centro Europa, dove Eduardo si muove scrupolosamente; cosa che fa del resto in America Latina, ideale se si va in cerca di “personalità”. A prescindere però dalla provenienza “è importante che in campo i giocatori parlino la stessa lingua, la lingua universale del buon calcio e del talento.”
    Il calcio italiano ha paura di tutto ciò che non conosce, lo rifiuta, lo etichetta come non adatto senza provare a capirlo. È un mondo impaziente e chiuso che vive di stereotipi: “No a quelli del Nord perché poco decifrabili, No agli Anglosassoni perché non si integrano, No agli Africani perché misteriosi”. È il caso di Vieira, Bergkamp, Van der Sar, Henry all’estero grandi giocatori ma in Italia inadatti. In ogni caso senza dialogo e apertura mentale si perde competitività.
    Le peculiarità di un calciatore vanno comprese in profondità per valutare se può apportare valore al gruppo. Eduardo ha una predilezione per i giocatori piccoli, rapidi e tecnicamente dotati, secondo il modello spagnolo. Tutti i calciatore devono saper trattare il pallone, anche i difensori e perfino i portieri; la qualità è d’obbligo, punto fermo e imprescindibile.
    Una grande squadra deve essere munita di varie attitudini e qualità, sapientemente mixate: devono esserci gli uomini che portano in campo la grinta, quelli che aiutano nello spogliatoio, quelli nati per giocare a calcio.
    Certi campioni  però possono arrivare in maglia viola solo sfidando gli avversari su un terreno impervio, dove altri non hanno il coraggio di addentrarsi. Occorre una buona dose di coraggio e un velo di follia. Ho guardato negli occhi di Macia, penso di aver visto il coraggio e la follia di un sognatore,  passione, preparazione, consapevolezza. Non si tratta di uno o più colpi di mercato riusciti  ma di concetti chiari per un progetto tecnico solido e duraturo.
    La Fiorentina di Macia (e Pradè) ruota intorno ad idee ben precise. Un centrocampo propositivo, con giocatori di personalità. Possesso palla di stampo iberico, grinta e solidità difensiva tipicamente argentine, chiusure e ripartenze di italica fattura. Allegria, coraggio e fantasia sulle fasce, retaggio “africano-ispanico-sudamericano”. Davanti  pragmatismo tedesco. La tecnica è la “condicio sine qua non”: una squadra costruita per concetti.  Questa è la peculiarità di Macia. Davvero dopo tutto quello che quest’uomo ha saputo dimostrare in appena tre anni, la Fiorentina può pensare rinunciare al suo talento così cuor leggero?  In un mondo nel quale la visibilità sembra contare più del  merito, idee e metodo non riescono ad andare in prima pagina. Tutto scorre nell'indifferenza generale; passare inosservato, un ossimoro per un grande talent scout, finisce per diventare una colpa. Firenze perde il suo protagonista silenzioso senza nemmeno accorgersene. Non è così che i progetti muoiono a metà?

    Altre Notizie