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  • Gattuso: 'Silvio deve restare'

    Gattuso: 'Silvio deve restare'

    Rino Gattuso, dall’incitare gli ottantamila di San Siro al trascinare i tifosi del suo Sion nel derby vinto col Servette in uno stadio da ventimila posti in mezzo alle montagne della Svizzera francese davvero per lei non fa alcuna differenza?  “II Tourbillon non è il Meazza, che scoperta. Ma tutto si può dire tranne che lì dentro non ci sia atmosfera. Il calcio è calcio ovunque, l’ho sempre pensato e adesso ne ho la conferma”. 

     
    Ma per il campionato italiano non è la stessa cosa una serie A senza Ibra, Thiago Silva, lei, Nesta, Seedorf, Lavezzi, con un giovane talento come Verratti che se ne va prima ancora di averla assaggiata e un altro come Balotelli che indietro non torna.
    “Vedere il Milan che vende in un colpo solo i due migliori giocatori fa effetto. Ma la domanda la faccio io: è meglio vendere Ibra e Thiago Silva al Psg oppure lasciare a casa mille e passa dipendenti delle aziende Fininvest per la crisi economica?”.
     
    Quindi il ridimensionamento del calcio italiano è inevitabile e irreversibile? 
    “Se tutte le aziende non vanno bene e devono tagliare, perché il calcio dovrebbe fare eccezione? Sarebbe incoerente. Io sono anche un imprenditore, credo di parlare con cognizione di causa. Ora vivo in Svizzera, però non sto mica sulla luna”.
     
    Com’è l’Italia, vista da Sion?
    “Non voglio fare demagogia: tutte le mie attività sono in Italia, a meno di due ore da qui. Io so che per la maggior parte delle persone i soldi finiscono sempre quindici giorni prima che arrivi lo stipendio e che le tasse sono un incubo. Intendiamoci, è giusto pagare l’Imu, tanto per dirne una. Ma è anche la mentalità nel rapporto con lo Stato che conta. Io mi guardo sempre intorno e vedo le differenze tra i paesi. La prima cosa che ti fanno, all’arrivo in Svizzera, è l’assicurazione personale: senza, nessuno ti può dare un contratto di lavoro. Le regole sono chiare e tutti le rispettano”.
     
    Altre differenze?
    “La crisi qui non c’è. La gente guadagna di più, ma la vita è anche molto più cara. Le obbligazioni sono all’1%, vai a fare la spesa al supermercato e il prosciutto costa 80 franchi al chilo. E tu sei un calciatore professionista e basta”.
     
    Sarebbe a dire?
    “Sarebbe a dire che ad esempio, dopo il derby col Servette, sono sceso tranquillamente al bar in maglietta e calzoncini e ho offerto due birre a due tifosi che si sono messi a chiacchierare con me. Poi sono andato in pizzeria e altrettanto tranquillamente mi sono potuto sedere al bancone con quattro amici, ho scritto le ordinazioni su un fogliettino e ho portato i cartoni con le pizze su in casa a mia moglie Monica, ai miei bambini Gabriela e Francesco, a mia sorella Francesca e agli altri amici che mi stavano aspettando. Sarà anche una cosa banale, ma in Italia non avrei mai potuto. E’ un altro mondo”.
     
    Non è semplicemente l’altra faccia di un calcio più naif?
    “Macché, non fatevi ingannare. La Svizzera ha vinto nel 2009 il Mondiale Under 17, il Basilea nella scorsa stagione ha eliminato dalla Champions il Manchester United, il master che ha laureato il nostro allenatore Fournier dura un anno e mezzo ed è duro e selettivo, molti giovani bravi giocano all’estero e il campionato è pieno di ragazzi di 20-22 anni che aspirano a finire in Germania o in Inghilterra o in Francia. La verità è che io, per tredici anni, ho avuto la possibilità di fare un altro sport, perché al Milan tu devi solo pensare a fare il calciatore e sei messo nelle condizioni ideali per riuscirci. Ma il calcio normale, il calcio del 95% dei club di tutto il mondo, è questo: è non poterti scambiare la maglietta con l’avversario a fine partita, perché ogni spreco è vietato, è portarsi la borsa da solo. A proposito, sa che cosa mi è successo?”.
     
    Dica.           
    “Che continuavo a dimenticarmi la borsa dappertutto, non ci ero abituato. Così ho ideato col magazziniere una scommessa: se vinciamo, gli do cinquanta franchi per portarmela”.
     
    E se perdete?
    “Meglio che non si avvicini. Per ora ha già guadagnato cento franchi, siamo primi in classifica da soli con due vittorie in due partite, 2-0 a Zurigo col Grasshopper e 1-0 in casa col Servette. Ma anche su questo non fatevi ingannare: le partite sono tutte equilibratissime, le vittorie bisogna sudarsele sempre e il livello medio è piuttosto alto. Non c’è molta differenza, rispetto alla serie A italiana. Se non fai le cose più che sul serio, ci metti un secondo a perdere”.
     
    Quindi?
    “Quindi mi sono buttato a capofitto nel lavoro e mi sto appassionando. Sono qui dal 14 giugno e non sono ancora tornato in Italia. Eppure casa mia e la mia pescheria, a Gallarate, sono soltanto a un’ora e quaranta di treno. Ma la pescheria la mandano avanti benissimo il mio socio Andrea e il mio “fratello” Salvatore. Qui c’è tanto da fare, è una sfida che mi riempie la giornata”. 
     
    La racconti.
    “Sveglia presto, alle 8 sono già in pista con l’altro mio amico fraterno Gigi Riccio, che fa il vice allenatore. Tra campo, allenamenti e riunioni tornavo a casa, un appartamento vicino alla stazione di Martigny, soltanto la sera. Ora mi trasferisco a Montreux, sul lago di Ginevra. I bambini andranno alla  scuola internazionale, impareranno bene il francese: è una grande esperienza anche per loro”.
     
    Questa da calciatore sfuggito a chi la voleva pensionare troppo presto è una sfida con se stesso?
    “E’ prima di tutto un grande arricchimento personale e non parlo di soldi. Se fosse stato soltanto per denaro, sarei potuto andare da altre parti. Mi hanno convinto la vicinanza a casa e soprattutto le parole di Constantin, il presidente. E’ un grande architetto con la passione del calcio e ha un progetto serio e importante. Non mi va che passi per un visionario, questo Sion può crescere tanto. Io ci credo. Sto dando e ricevendo: ci metto la mia esperienza di quindici stagioni al massimo livello, ma  imparo anche molto”.
     
    Impara da un calcio periferico e da un presidente che l’anno scorso è costato al Sion 36 punti di penalizzazione per avere schierato giocatori che non poteva utilizzare?
    “Tante volte noi pensiamo di essere i migliori e di saperne sempre più degli altri. Invece in tutto questo periodo ho visto tante cose diverse, alcune anche decisamente positive. Prendiamo proprio Constantin: all’esterno sembra una persona troppo dura. Ma io dico che la sua è una durezza giustificata: quando non vede il massimo impegno, tocca i giocatori nel portafoglio e fa bene”.
     
    Lei è un sindacalista dell’Aic.
    “Che c’entra? Io sono sempre più convinto che i  giocatori debbano assumersi un po’ di responsabilità in più, a maggior ragione in un momento di grande crisi economica come questo. Devono capire che il rispetto del gruppo, degli orari, delle regole è fondamentale. Ho l’impressione che tante volte i calciatori sottovalutino i privilegi del mondo in cui vivono, a partire dall’aspetto economico, rispetto alla maggioranza delle persone”.
     
    Ok, ma che cosa sta imparando veramente dalla Svizzera?
    “A livello di vita ad apprezzare la montagna, io nato e cresciuto al mare in Calabria. Un giorno eravamo in ritiro, a 1500 metri, e mister Fournier mi dice che andremo un po’ più in alto. Io penso a una passeggiata e non batto ciglio. Beh, siamo arrivati a quota 2500 e a dieci gradi sottozero, dopo due ore di camminata e di una fatica mai provata prima: non ho mollato soltanto perché mi vergognavo. Sul piano del lavoro, invece, sto imparando una volta di più che la serietà paga sempre, che la forza dei comportamenti vale più di mille parole e che il senso del gruppo, in una squadra, è un valore fondamentale. Ho introdotto l’abitudine della cena o del pranzo con i compagni e con lo staff, tutti assieme. Quando ho offerto la prima cena, c’era chi strabuzzava gli occhi: non l’avevano mai fatto”.
     
    La difficoltà principale?
    “Fare capire l’importanza della tattica studiata a tavolino, non solo sul campo. E’ un punto di forza della scuola italiana, ma in Svizzera non è che ci credano ancora molto, anche se l’Europeo della Nazionale di Prandelli è stato importantissimo: ci ha tolto l’etichetta di catenacciari e ci fatto diventare simpatici un po’ in tutto il mondo, anche a chi ci disprezzava”.
     
    Lei, campione del mondo a Berlino, ci credeva?
    “Sì e l’ho detto subito, a Coverciano, dove frequentavo il corso da allenatore riservato a noi campioni del mondo proprio mentre Prandelli preparava gli azzurri all’Europeo. Si vedeva che aveva le idee molto chiare, bisogna rendergliene merito”.
     
    Non è eccessivo parlare di rivoluzione tattica?
    “E’ sbagliato dimenticarsi che con Lippi, al Mondiale 2006, eravamo magari una squadra più difensiva che offensiva ma che abbiamo osato, eccome: nella semifinale con la Germania, a un certo punto, c’erano in campo quattro attaccanti. Però è giusto ammettere che Prandelli ha cambiato il modo di stare in campo dell’Italia”.
     
    La nuova vittoria in semifinale con la Germania è stata il trionfo del vecchio, caro contropiede.
    “Non facciamo confusione tra l’attaccare e il difendersi e il puntare su giocatori di qualità. In questa Italia non c’era magari uno come Gattuso o come Cannavaro, specializzatissimo nel proprio ruolo, ma c’era un tipo di giocatore adatto al calcio di oggi, uno che sa fare il 50% del gioco difensivo e il 50% di quello offensivo. Io nel 2006 ero mediano al 100%”. 
     
    Riassumendo?
    “Riassumendo, l’Italia di Prandelli non aspetta l’avversario, ma propone e soprattutto non si lascia attaccare, perché la difesa la fa più avanti. Sono due anni che il ct ci lavora e il risultato si è visto. L’ultimo esame che ho fatto, prima di prendere il patentino, dimostrava proprio che la nostra scuola sta cambiando: forse siamo diventati antichi per un certo tipo di calcio”.
     
    Mettersi sul piano della Spagna, però, è rischioso, come dimostra il 4-0 della finale.
    “Se la squadra avesse potuto riposare di più, sarebbe stata un’altra partita. Io non riesco a capire tutta questa fretta di giocare la finale nel fine settimana, a soli tre giorni da Italia-Germania: anche giocando di mercoledì, non credo che l’audience televisiva di una finale dell’Europeo sarebbe stata più bassa. L’Uefa ha sbagliato il calendario, falsando la partita. Quanto al resto, si possono fare tanti discorsi filosofici, ma  la verità è una sola: nessuno si può svegliare la mattina e pensare da un’ora all’altra di essere la Spagna. Quella è una scuola nata da Cruyff, venticinque anni fa, e passata anche attraverso sconfitte cocenti. Solo che ci hanno creduto e adesso raccolgono i frutti, grazie anche a una generazione formidabile: la Spagna rifiata col possesso palla, è una vera macchina. Ma Prandelli è uno concreto, ha saputo sfruttare la nostra tradizione”.
     
    Come?  
    “Gli errori della Germania sono nati dalla paura e dalla tensione. Pensavano di batterci, stavolta, invece a poco a poco si sono spaventati, perché capivano che come al solito stavano sbattendo contro il muro dell’Italia”.
     
    Dopo il secondo posto Prandelli ha chiesto una verifica tra sei mesi: se la Nazionale sarà ancora abbandonata, lui potrebbe andarsene. 
    “Parliamoci chiaramente: i club avranno sempre la priorità e il coltello dalla parte del manico, perché pagano gli stipendi. Il ct fa bene a chiedere almeno gli stage per i più giovani, ma sinceramente la vedo dura. Piuttosto, credo che da subito si debba fare un campionato più vero e duro di quello Primavera, dove i ragazzi di talenti possano crescere sul serio, misurandosi con le difficoltà, almeno a livello di Lega Pro. In Svizzera c’è”.
     
    Si accorge che sta parlando già da allenatore o da dirigente?
    “Io non so ancora che lavoro farò, dopo questi due anni di contratto col Sion. Ma sicuramente ho la presunzione di capire di calcio. E poi devo ringraziare Ulivieri per il corso allestito per noi campioni del mondo. Mi ha fatto ragionare 360 gradi, lui in quei giorni è stato un grande maestro. Anzi, lancio una proposta”.
     
    Prego
    “Secondo me, tutti i calciatori dovrebbero poterlo fare, il corso, mentre giocano ancora, a costo di rinunciare a venti giorni di vacanza. I colleghi mi ascoltino, è una risorsa importante: ti fa capire anche di psicologia e di medicina, ti fa pensare da allenatore, ti dà una visione meno parziale del calcio: non dico di farlo a 20 anni, ma a 27-28 sì”. 
     
    Però non può bastare, per respingere l’assalto della Francia, che rischia di sorpassarci nel ranking Uefa.
    “Non è che abbiamo molte alternative: dobbiamo riuscire a valorizzare il nostro modo di pensare il calcio, che io personalmente continuo a preferire alle altre. La cultura del lavoro, quello sul campo e quello tattico, settimanale e quotidiano, può fare ancora la differenza”.
     
    Difficile, se poi i talenti come Verratti vanno subito all’estero.
    “Per il calcio italiano non era possibile tenerlo: le offerte dei nostri club erano al massimo per la comproprietà e invece ora il Pescara, con questa cessione, per un anno e mezzo potrà stare tranquillo economicamente. Semmai io credo che dalla storia di Verratti si possa trarre un altro insegnamento”.
     
    Quale?
    “Che la valorizzazione dei nostri talento - penso tanto per dire a Destro di cui tutti parlano in questo momento - passa attraverso i grandi maestri. Verratti era una mezza punta. Ma se non avesse incontrato Zeman, che lo ha trasformato in regista come Mazzone e Ancelotti fecero con Pirlo, forse non avrebbe giocato nemmeno in Lega Pro. I maestri latitano”.
     
    Ne vede qualcuno potenziale, all’orizzonte?
    “Stramaccioni, se gli daranno la possibilità. L’ho conosciuto a Coverciano e mi è piaciuto molto il suo modo di porsi”.
     
    Difficilmente lei inserirà Allegri nella categoria dei maestri, a giudicare dal vostro divorzio al vetriolo.
    “E’ un allenatore molto valido, sa quello che vuole, è preparato. Però a volte la grande squadra è la grande squadra. E tante volte bisogna capire le esigenze della squadra e ascoltarla”.
     
    Allegri la voleva già in pensione, con l’avallo della società?
    “Col Milan mi sono lasciato bene. Ho sentito parlare di tagliatori di teste. Io non ho mai detto che il Milan mi ha cacciato: non mi ha cacciato nessuno, è un dato di fatto. E’ successo soltanto che le priorità erano altre, io l’ho percepito e me ne sono andato”.
     
    Tonerà, un giorno, lei che in Italia non ha voluto andare a giocare altrove?
    “Io non ho niente contro il Milan. Andarmene è stata una mia scelta, Galliani lo sa: lui mi avrebbe rinnovato il contratto. Io ho detto di avere dato tutto. Tiferò sempre Milan, i tifosi lo sanno, come Galliani sa la riconoscenza che provo per il club. Se sono diventato ricco  famoso, è grazie a loro. Seguirò i miei ex compagni da vicino, la Svizzera è vicina”.
     
    Il Milan, invece, si è allontanato da scudetto e Champions.
    “L’obiettivo primario è riuscire a ricompattare il gruppo e non restare fuori dalla Champions, anche con le poche spese possibili sul mercato. Realisticamente il fatto che la squadra abbia visto andare via i due giocatori più forti ha un peso psicologico nello spogliatoio”.
     
    Non solo in quello: Galliani ha preso in considerazione l’idea di rimborsare gli abbonamenti.
    “E’ la conferma che si tratta di uno dei migliori dirigenti calcistici europei. E’ una questione di tatto verso la gente milanista, lui l’ha avuto. Ha fatto capire che non c’è stata nessuna manovra preordinata, che non è stato studiato nulla a tavolino: era veramente necessario approfittare dell’offerta del Psg, per aggiustare i conti”.
     
    Significa che sta finendo l’era Berlusconi.
    “ Significa che in questo momento chi sta dietro le quinte, chi lavora per lui, gli ha fatto capire che non c’è altra strada”.
     
    Ripianare i conti non è il preludio alla vendita del Milan?
    “Io lo vedo come un grande senso di responsabilità, che forse è mancato nel calcio italiano. Torniamo al discorso iniziale: non fare perdere il posto di lavoro ai dipendenti è la cosa più importante in questo momento. Poi, ripeto, il Milan è sempre stato un altro sport, un altro mondo, rispetto agli altri. Vederlo in mano agli arabi o ai russi vorrebbe proprio dire che l’Italia, economicamente, è al game over. L’Italia è sempre casa mia, la mia testa è italiana. Questa per me è una grande esperienza, un passaggio obbligatorio, una prova del fatto che sono un uomo di calcio e che voglio ancora esserlo”.
     
    Non parla mai della vittoria sulla malattia all’occhio: non è stata anche questa la molla che l’ha portata al Sion?
    “Le flebo le faccio sempre e le pasticche continuo a prenderle, anzi ogni tanto me le dimentico a casa e devo tornare di corsa a riprenderle. Se ho resistito e se gioco ancora, è per l’amore che provo per questo sport. L’altro giorno il dottore mi ha guardato e mi ha detto: certo che ti piace proprio questo lavoro, vuol dire che hai tanta passione”.
     
    Che cosa le ha insegnato quest’incubo di sei mesi?
    “Che quando stai male veramente non puoi fare capire quello che stai provando. Chi sta bene non può capire chi sta male, come dicono dalle mie parti il sazio non può mai credere a chi fa digiuno. Io per un po’ mi sono nascosto anche a mio padre e a mia madre, mi sono lasciato andare solo con mia moglie e con qualche amico. So che allenarsi è un privilegio”.
     
    Ha mai pensato al fatto che la sua carriera, sbocciata all’estero in Scozia nei Rangers, si concluderà all’estero, come in un’ideale chiusura di cerchio da emigrante del pallone, un inno alla fatica?
    “No. Quando mi alleno non penso a quello che ho fatto, ma a quello che devo fare ancora. E’ bello andare su wikipedia e leggere la voce col tuo nome, ma a che serve? Se non avessi pensato di poter fare bene anche in Svizzera, non sarei mai venuto. Io ho tutto da perdere qui. Ma volevo sentirmi vivo, calcisticamente importante, un calciatore vero”.
     
    Anche per zittire chi li dava per finito?
    “No. Quello che pensano gli altri può cambiare in mezz’ora, guardando una partita. A me interessa quello che sento dentro io. E vedere che posso fare ancora, a 35 anni, quello che facevo a 27 e 28. E’ fondamentale essere vivi dentro, è essere apprezzato come uomo. Io spero che nei club in cui ho giocato di me, come uomo, possano sempre dire qualcosa di buono”.
     
    Le arrivano molti sms dal suo passato prossimo?
    “Uno recente da Ibra: era tanto deluso. Ad Ancelotti, che vincerà la Ligue e può giocarsela in Champions, l’ho mandato io, un po’ di tempo fa”.
     
    Il suo ex nemico Leonardo?
    “Con lui ho sbagliato. Il suo sms, quando sono tornato a giocare dopo il mio problema all’occhio, mi ha fatto molto piacere, come quelli che ogni tanto ricevo da Mourinho”.  
     
    Se il Sion arriva almeno secondo, li potrebbe incontrare in Champions il prossimo anno.
    “Non è giusto parlare di scudetto o di qualificazione Champions, ma di lavoro. Io so solo che il presidente Constantin, che ha la fama di persona intrattabile, a me dà un sacco di carica, ogni volta che gli parlo. Qui c’è una sfida che non si può riassumere in una parola o in un obiettivo da slogan. Dobbiamo semplicemente arrivare a ragionare tutti nella stessa lingua calcistica, i risultati possono arrivare di conseguenza”.           
     
    Le è mai capitato, in questo primo mese e mezzo di Svizzera, di chiedersi che cosa ci stava a fare, tra le montagne del Vallese? 
    “Due o tre volte. Ma mi sono subito risposto da solo: stai zitto, brutta testa di cazzo. E pedala”.
     

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