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  • Il derby di Furino: 'Ho vinto, perso e menato'

    Il derby di Furino: 'Ho vinto, perso e menato'

    "Eravamo più forti, ma quanto soffrivamo. Nella settimana che precedeva la partita, Boniperti ci faceva mille telefonate: allo stadio due ore prima. Troppa tensione. All'epoca si giocava in cortile, all’oratorio, in piazza D’Armi, oggi esistono solo scuole calcio a pagamento".
    Le mille sfide di Furino: "Ho perso, vinto, menato: era il derby. Oggi questa partita non la capiscono".
    Nell’ufficio dell’assicuratore Giuseppe Furino non cercate tracce dell’antica gloria ma cartelline, faldoni, polizze. Quant’è larga questa stanza con vista sulla rotonda e sul parcheggio, e quant’è sempre piccolo lui. L’omino di ferro con il numero 4 tra le scapole. Il guerriero juventino. Il capitano Furia. «Mi chiamò così Vladimiro Caminiti di Tuttosport, un grande giornalista troppo presto dimenticato. Ma questi sono i tempi della velocità senza memoria, non è vero?». Qui dentro non esistono coppe, maglie o medaglie. Solo una sacca sportiva blu e una borsa di carta con lo stemma della Juve, che però Furino chiama sempre Juventus, per esteso, come se nel rispetto formale di una completezza risiedessero anche un sentimento e un affetto profondi, la storia di una vita. In quella borsa quasi dimenticata a terra, una vecchia caricatura di Furino disegnata da Franco Bruna e una foto con Cabrini e Boniperti. C’è polvere sulla cornice. Siamo qui per parlare di ieri, e per parlare di un derby che può dare lo scudetto alla Juve, anzi alla Juventus. «Il passato non era meglio perché è passato, non siamo così rincoglioniti. Il passato era meglio perché era meglio». Il Toro, dunque. «La mia prima volta vinsero loro 2-1, era il 1969. Poi, una trentina di derby mal contati, più persi che vinti. Noi pativamo i granata, quei malandrini che sapevano certo giocare, ma anche provocare. Causio, per esempio, al primo insulto perdeva la bussola e spariva. Anch’io non ero più io. Boniperti, nella settimana che precedeva la partita ci faceva mille telefonate, si arrivava allo stadio con due ore di anticipo, troppa tensione, troppa». Beppe Furino parla con lenta esattezza. «Il Toro aveva il valore aggiunto dell’appartenenza, del vivaio, oggi si è perso. Ma anch’io, Bettega e Causio arrivavamo dal settore giovanile. Si giocava in cortile, all’oratorio, in piazza D’Armi, oggi esistono solo scuole calcio a pagamento. Ogni bambino, a quel tempo, giocava a pallone tutto il giorno. Nel Toro c’era Ferrini, grande carisma, magnifico centrocampista, non solo un lottatore. Con Agroppi ci conoscevamo fin da piccoli, ci eravamo affrontati mille volte nei vari campionati, eravamo amici, ma nel derby lui si trasfigurava. Lo capii la volta che mi diede un cazzotto in mischia e poi sparì: altrimenti non sarebbe finita in quel modo, io ero un po’ vendicativo». L’omino di ferro, 66 anni, cerca un almanacco del calcio e comincia a contare i suoi derby. «Perso... perso... pareggiato... perso... vinto: oh, finalmente». Le pagine hanno questo terribile potere di sfogliarsi quasi da sole, gli anni corrono come attimi. «C’era un ragazzo, tal Francesco Graziani, eravamo militari insieme. Chiamai Boniperti, gli dissi “presidente, è fortissimo, bisogna portarlo alla Juventus”. Non se ne fece nulla, peccato. Graziani era davvero moderno, un attaccante notevole, e da giovane tifava pure per noi, anche se non lo ammetterà mai. Il Toro è sempre stato cuore, però il cuore non basta, serve anche la tecnica e bisogna liberarsi del peso del passato: non delle radici, ma di quel peso sì. Ricordo un derby perduto male, un nostro tifoso fece invasione di campo solitaria, lo rincorsi e lo presi a calci nel sedere. Alla fine della fiera, però, era più forte la Juventus, come squadra intendo». Ma quel color sangue granata, ora sembra intridere ogni ricordo. «Lo scudetto perso nel ’76 resta la delusione più profonda, avevamo 5 punti più del Toro eppure non bastarono: tre sconfitte di fila, Cesena, derby, Inter, così loro ci passarono davanti. I tifosi contestarono al campo d’allenamento, io ne inquadrai due o tre. L’anno dopo vincemmo la Coppa Uefa a Bilbao. Quando tornammo a Caselle, io che ero il capitano scesi dall’aereo con il trofeo in mano. Tra i tifosi che si avvicinarono sulla pista, riconobbi uno dei contestatori. Mi disse bravo Beppe, grande Beppe. Gli risposi: se non te ne vai, ti spacco questa coppa in testa». E adesso, Beppe? «Ho fatto per trent’anni l’assicuratore e ho sbagliato, dovevo restare nel calcio e diventare allenatore. Più del pallone, però, mi manca la vita che ho vissuto. Oggi c’è troppo di troppo: troppa tv, troppa tensione, troppe parole. Ho sempre usato molto i verbi al condizionale, sono fatto così, non spaccio certezze. Diventai juventino a dodici anni, poi calciatore, e ho sempre sporcato tutte le maglie che ho indossato, tutte, santo Iddio. E’ stata una lunga mischia e una bellissima avventura».


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