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  • Il 'Dottore' allena ancora

    Il 'Dottore' allena ancora

    • Marco Bernardini
    Dal giorno in cui (era il 1975) lasciai la redazione della Gazzetta del Popolo, dove mi occupavo di Politica Estera, e mi trasferii a Tuttosport dovetti impegnarmi un bel po’ per rispondere negativamente ai molti che mi chiedevano quale rapporto di parentela vi fosse tra il sottoscritto e Fulvio Bernardini (foto da www.diegoalvera.it). Essendo entrato a far parte del Barnum calcistico, c’era chi trovava naturale l’esistenza di un legame di sangue che però non c’era. Del resto a me bastava già avere uno zio celebre, Sergio Bernardini, il fondatore de La Bussola di Focette e grande manager dello spettacolo. Due sarebbero stati troppi. Tantissimi, invece, sono i “figli” del Dottore. Così veniva chiamato uno fra i più grandi allenatori che il calcio internazionale abbia mai avuto modo di poter celebrare, sia da vivo e sia da quando dovette salutare questo mondo. Fatale evento che accadde il 13 gennaio di trentadue anni fa con Fulvio portato via dalla sclerosi multipla a placche. Un male che, allora, non era mai stato accostato, come adesso, a chi faceva sport per sospette interazioni con  determinati farmaci. E di calcio ne aveva masticato tanto  anche Fulvio come giovane calciatore in una squadretta del Testaccio romano scomodando la penna di Eugenio Scalfari che scrisse di lui: “Ieri ho visto un genio giocare a pallone”. Una genialità che il “Dottore” riuscì ad applicare soltanto in seguito quando smessi gli scarpini divenne maestro in panchina. La definizione più curiosa e imponente che gli venne data dall’amico di bisboccia e rivale di penna Giuan Brera (Fulvio, oltre alla laurea in scienze economiche, era anche giornalista) fu quella di “Michelangelo del pallone”. Questo a voler significare in quale misura Bernardini considerasse il gioco del pallone un momento di “grande bellezza” anche estetica.  E per dimostrare la validità di questo suo teorema lavorò tutta la vita, per squadre di club e per la nazionale italiana.

    Torniamo ai suoi figli, che non solo soltanto i due maschi avuti dalla sua inseparabili moglie, Ines. Ne esiste un numero buono per comporre un piccolo esercito, non di letto ma per ideologia. Nessun allenatore contemporaneo, passato dalla scuola del “Dottore” come calciatore o come apprendista tecnico, ha mai scordato una sola parola degli insegnamenti, tattici e umani, ricevuti da un uomo per il quale il gioco del pallone non poteva venir imprigionato dagli schemi o reso ostaggio del freddo ragionamento tattico. Uno di questi allievi è Marcello Lippi. Giocatore mai oltre una dignitosa media, quando vestiva la maglia della Sampdoria, ma già curioso e attento osservatore dei metodi di allenamento e delle indicazioni di gioco date dal suo allenatore che, appunto, era Bernardini. Tant’è, professionalmente e non solo, Marcello ricorda molto da vicino il suo maestro e non perde mai occasione di celebrarne il nome per bravura e senso dell’umanità. A Bob Vieri, genio tradito da se stesso e babbo di Bobo, il “Dottore” fece rifare tutti i denti pagando di tasca sua. Genova e la Samp rappresentarono l’ultima tappa di Bernardini allenatore. Poi lo volle la Federazione, dopo i disastrosi Mondiali “azzurro tenebra” del 1974, per affiancarlo a Enzo Bearzot. Inutile negarlo. Anzi, dicendo che il trionfo di Spagna 82 portava dentro di sé anche un  poco del lavoro precedentemente fatto da Bernardini non deve offendere proprio nessuno. Ma, certamente, furono gli step precedenti a fare in modo che le “teorie del Dottore” diventassero prima storia e poi addirittura vangelo. E nella storia della Fiorentina si trova appunto il tricolore di uno scudetto, quello del 1956, firmato da un groppo mitico guidato alla carica da Pecos Bill Virgili e diretto per cinque stagioni da Fulvio. E nella storia di un Bologna che “tremare il mondo faceva” fa bella mostra il gioiello di Campione d’Italia che la banda Fogli-Bulgarelli-Haller-Pascutti regalò ai  tifosi per la regia di un uomo di sport talmente così immenso da trovare un paragone con Enzo Ferrari. Era il 1964. Nieslen faceva gol e Gianni Morandi spopolava con “Andavo ai cento all’ora”. Socmel, che goduria!

    Ciascuna cosa ha una fine. “Quando il calcio non mi vorrà più, mi rimarrà la tua mano e io la stringerò ancora più forte” diceva Fulvio alla sua Ines. Se ne andò proprio così. Perdere Bernardini, per il calcio dell’onestà e della lealtà che lui aveva eletto elementi irrinunciabili, fu un colpo davvero grande oltreché doloroso. Certo è che, visti i tempi attuali e le inclinazioni morali discutibili di un mondo sempre più avido di “cibo” assai poco sportivo, una figura come quella del “Dottore” ben difficilmente saprebbe adattarsi al clima pesante e talvolta drogato che, inevitabilmente, farebbe a pugni con la ricercata “grande bellezza”. Restano  i suoi “figli” a lottare. Sono sempre di meno. E’ fatale. Ma finchè ce ne sarà anche uno soltanto, figlio  dei figli naturalmente, anche Fulvio Bernardini continuerà ad allenare.

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