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  • Inter, Mazzarri vive il suo mestiere con angoscia e la diffonde

    Inter, Mazzarri vive il suo mestiere con angoscia e la diffonde

    • Marco Bucciantini
    Al di là del tifo che anima ognuno di noi, si può anche riconoscere che a San Siro succede il giusto. Il Cagliari fa cose semplici, con tigna e velocità. Attacca su tutto il fronte, sostiene l’azione con gli interni. È una squadra debole fisicamente (a parte Ibarbo e Ceppitelli, pensa un po’) ma pervasa da un’esaltante idea del futuro. Curiosa la battuta di Ranocchia: “Le squadre di Zeman fanno impazzire, vengono avanti con 5-6 uomini…”. Con i tempi di gioco fluidi, ogni squadra dovrebbe attaccare con almeno cinque uomini, soprattutto se gli avversari (come l’Inter) mancano poi di disimpegni rapidi capaci di ribaltare in fretta l’azione. Brutto segno quando la normalità fa eccezione. Mazzarri parla di stanchezza non calcolata, e potrebbe anche aggiungere lo sciagurato Nagatomo, che mutila il suo indefesso e immutabile schema. Tutto vero, plausibile, ma inaccettabile. Bisogna parlar chiaro: le squadre stanche pagano la distanza: l’Inter si sfarina nel primo tempo. Il giapponese fellone era poi uno dei pochi riposati nelle recenti partite e così altri fra i peggiori della domenica. L’Inter soffre problemi banali e complessi: da molti mesi manca la partita che dovrebbe assicurarle una dimensione più robusta. Quando sembra trovare continuità, rinnega se stessa. Una squadra forte è facilitata dall’andazzo: quando vince, va quasi d’inerzia. L’Inter fa il contrario: se è il momento buono, s’inceppa. Questo è un problema di mentalità: dei giocatori, della società che forse non trasmette ambizione, dell’allenatore che vive il suo mestiere con angoscia, e la diffonde. I guai più complessi abbiamo provati a spiegarli molte volte, e dobbiamo tornare sempre lì, al primo settembre, quando ci sembrò ovvio che il mercato non aveva spostato d’un niente gli equilibri dentro il campionato. E ciò che affannava i nerazzurri non era stato riparato: la mancanza di giocatori che con continuità possano allargare le difese, ma non le corse dei terzini, semmai quegli attaccanti bravi a lavorare sui lati: Palacio lo fa per coazione, resta sempre – per mentalità – un finalizzatore. Però almeno ci prova. E poi la lentezza d’uscita del pallone dal disimpegno, l’armonica collocazione dei portatori di palla fra i quali Hernanes andava subito dirottato in compiti di regia. L’Inter attacca piano, dunque lascia naturali spazi. L’Inter porta palla, dunque è facile da prevedere, da braccare, da interdire. E da contrattaccare. L’Inter conosce un solo modo di stare in campo, e appena salta un giapponese, ecco il finimondo, lo smarrimento (per cosa?). Una squadra così forte fisicamente anche se fosse stata fiaccata dalla stanchezza doveva contenere il Cagliari, e cercare pian piano di guadagnare qualche duello, e tirarsi su. Accettare il destino con quell’apatia significa dover ricostruire tutto daccapo: certe sconfitte sono più pesanti di altre, dimostrano una distanza preoccupante da quella forza mentale (spesso più importante di quella fisica) che serve per mirare al terzo posto.

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