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  • Jakarta canta: lasciamo lavorare Thohir, il management sportivo non fa per noi
Jakarta canta: lasciamo lavorare Thohir, il management sportivo non fa per noi

Jakarta canta: lasciamo lavorare Thohir, il management sportivo non fa per noi

  • Dominque Antognoni per indiscreto.info
Come si dice nei collegamenti chic, per far vedere di essere sul posto (tanto paga l’azienda), “Buongiorno da Jakarta”. Non è per tirarcela, che tanto all’atto pratico serve a zero, ma per sottolineare un aspetto sempre più evidente: ci stanno seppellendo, anzi, ci stiamo scavando la fossa da soli. Andiamo stancamente a piedi mentre loro volano con la Ferrari, in senso non solo metaforico. Siamo il passato ma ce la meniamo come se fossimo ancora i padroni delle ferriere. Date poi al ‘noi’ il significato che volete: italiani, europei, occidentali, eccetera. Quei ‘noi’ siamo noi.

Piccolo esempio. Il cosiddetto Business Triangle della capitale indonesiana è grande quanto una città di medie dimensioni, altro che il quadrilatero della moda che tanto ce la tiriamo di avere (che poi i clienti arrivano solo dall’estero e fra poco non ci sarà alcun bisogno di venire fin qui, ovunque trovi boutique monomarca dei vari giganti del lusso). Il punto è che continuiamo a sentirci superiori in tutto, dedichiamo paginate ai diritti di chissà chi a Sochi invece di parlare di come si esca dalla crisi. Se mai se ne possa uscire, ovvio.

L’abbiamo presa un po’ alla larga per dire che Erick Thohir ed i suoi stanno costruendo, o per lo meno stanno provando a farlo, un progetto che duri nel tempo: hanno davvero un gruppo di esperti nelle materie di cui si occupano che ci lavora, il che non significa che l’Inter tornerà a vincere la Champions League ma che provano a creare qualcosa di reale. Non solo vittorie calcistiche, peraltro difficili anche con budget senza limiti tipo Moratti fino a qualche anno fa, ma qualcosa che secondo noi è per l’Italia più importante e rivoluzionario: una vera impresa capitalistica, nel settore più amato e seguito (perdonateci se non siamo esperti di slittino o short track). In Italia, paese del catto-comunismo, non esiste il capitalismo ma diamo lezioni e guardiamo con superiorità chi di mestiere fa questo da una vita.

Si storce il naso (lo abbiamo letto, anche, a firma di vedove morattiane) quando si fa il nome di Michael Williamson come direttore generale, ma in Italia esiste una persona così, nello sport? Ne abbiamo uno, almeno uno? No. Che scuola di marketing hanno seguito i dirigenti nostrani? Nessuna, ma sono manager a prescindere. Solo perché chi paga li ha messi in quella posizione. “Ha un curriculum di tutto il rispetto, ha lavorato e gestito situazioni ai più alti livelli negli Stati Uniti e Cina, insegna business sportivo all’Università della Georgia. Perché mai non dovrebbe riuscire nel suo lavoro a Milano?”, ci hanno detto qualche giorno fa personaggi di un certo spessore vicini a Thohir (non lui, che purtroppo abbiamo ‘mancato’ di poco). Ci duole ammetterlo, ma hanno ragione: noi di management sportivo non solo capiamo zero, ma pretendiamo pure di insegnare come si fa.

I giornali perdono copie, stanno in piedi solo per i soldi pubblici e aiuti patetici dalle banche, ma i giornalisti indicano la via a Thohir, che di suo ha un impero mediatico, tre reti televisive in attivo, un quotidiano che non prende danaro dallo stato e via dicendo. Chi può impartire lezioni a chi? La delusione di Thohir e dei suoi parte da qui, ma non lo ammetteranno mai pubblicamente ma fuori dall’ufficialità il sentimento è questo. Il messaggio è il seguente: il club stava fallendo, ci è andato più vicino di quanto immaginiate, ma i giornalisti e l’ambiente (molto meno i tifosi) esaltano gli uomini che lo hanno portato alla deriva finanziaria. Perché? Perché Moratti tirava fuori somme gigantesche, fin qui onore al merito. Ma dove ha portato tutto questo? Nel 2014 si può continuare a fare impresa in questo modo, anche in un settore particolarissimo come il calcio? No, non c’è nemmeno bisogno dell’Indonesia per capirlo.

Ma i giornalisti italiani, che non vogliono nemmeno sapere da chi arriva lo stipendio e se la gente apprezza il loro lavoro (tanto a fine mese qualcuno deve pagarli, no?), vanno avanti imperterriti: sanno solo invocare il grande acquisto, il grande nome. Tanto i soldi mica sono loro. Ecco, prima di svelarvi le strategie di Thohir e del suo staff, in futuri articoli (magari anche sul magazine online che il direttore di Indiscreto sta creando, se solo si desse una mossa), fermiamoci a pensare se abbiamo il minimo diritto di guardare con superiorità gente che ha dei master in marketing mentre nel reparto marketing dei club nostrani lavorano amici e amici degli amici. Per infierire aggiungiamo che nei giornali lavorano spesso “i figli di“, magari con raccomandazioni incrociate (esempio: la figlia del primario dell’ospedale X che fa la giornalista nel giornale Y e il figlio del giornalista nel giornale Y che fa il medico nell’ospedale X) e che siamo arrivati al punto che un famoso giornalista molto antipatico, andato in pensione, ora lavora per un noto procuratore e nelle nuovi vesti disturba gli ex colleghi per i voti bassi dati ai protetti e agli assistiti dell’agente. Proprio così. E siamo noi che guardiamo dall’alto in basso chi costruisce un grattacielo alla settimana…

Gli asiatici parlano solo di affari di altissimo livello, stanno comprando il mondo. Noi siamo ancora a disquisire sul pomodorino pachino, sulle nostre ‘eccellenze’ (fossimo almeno capaci di puntare seriamente sul turismo) e sulla divisa arcobaleno di un paese agli Olimpiadi. Forse il futuro abita lì, di sicuro non qui.
 

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