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  • Juve, Conte:|Il debuttante
Juve, Conte:|Il debuttante

Juve, Conte:|Il debuttante

Quanti dolori. Persino la notte in cui Vialli alzò l’unica Champions League vinta dalla Juve, quella dell’85 si chiamava ancora Coppa dei Campioni, Antonio Conte pianse più di rabbia che di gioia. Si era infortunato alla coscia poco prima dell’intervallo. Tutto il resto l’aveva seguito dall’infermeria guardando Jugovic, il suo sostituto, segnare il rigore della vittoria sull’Ajax. «Attorno a me, che avevo la coscia gonfia come un melone, era scoppiata la festa - ricorda -. Anch’io ero contento però non riuscivo a consolarmi di non essere stato in campo nel momento decisivo e soprattutto di aver compromesso la partecipazione agli Europei. Sacchi mi avrebbe chiamato, invece non se ne fece nulla». Certo, il rapporto di Conte con l’Europa è piuttosto sfigato. Era rotto quando la Nazionale di Zoff partì per l’Europeo perso con la Francia, e in quel modo. Un altro infortunio lo costrinse al forfait nella finale del ‘97 contro il Borussia Dortmund, in quella del ’98 persa con il Real Madrid già non era più titolare e giocò una decina di minuti che non cambiarono nulla, in quella del 2003 entrò all’inizio del secondo tempo e dal centro del campo vide Shevchenko sbattere in porta il penalty per il successo del Milan nell’unico epilogo tutto italiano della storia. Persino l’ultimo atto fu roba da rodersi il fegato. Andò con la Juve a La Coruña e perse per 1-0. Sembrava un risultato semplice da ribaltare invece i galiziani lo replicarono nel ritorno. Da quel febbraio del 2004 l’Europa si è dimenticata di lui. Dopo nove anni esatti Conte ci rimette la faccia per cambiare, da allenatore, il trend sfortunato del mediano. Lui, a dire il vero, non ci dà troppo peso. È come se avesse messo uno specchio tra le due carriere e se si volge a guardare il passato lo specchio gli restituisce l’immagine del presente. La notte del Celtic Park lo vede debuttante. Finora aveva seguito la Juve a distanza dal campo, senza esporsi. Insommaper sei partite è stato un allenatore «underground». Domani invece sarà in panchina ed è curioso che l’evento segua l’altra imprevista sosta ai box, le due giornate di squalifica dopo lo show (e relative scuse postume) con il Genoa. Celtic Park, 60 mila scozzesi a gridare nello stadio dove hanno dedicato la tribuna a un allenatore, il mitico Jock Stein, e un giorno magari dedicheranno, se non una tribuna, almeno una stella pure a lui nello Juventus Stadium. Se vincerà la Coppa, come Stein. Stridio di freni. Guai a volare alto. «Siamo ambiziosi - ripete Conte ma non dobbiamo dimenticare dove eravamo pochi mesi fa: lo scudetto è stato un successo mostruoso, ripeterlo lo sarebbe altrettanto. La Champions è la vetrina in cui esporci per far capire al mondo che la Juve è tornata ad essere la Juve, cioè una squadra che va ovunque con la consapevolezza di poter fare la propria partita, come abbiamo dimostrato a Donetsk. Non vado oltre. Finora siamo andati non bene, benissimo, ma questa è una competizione uguale a nessun’altra, va vissuta e capita. E noi siamo in troppi a provarla per la prima volta». Se avesse per le mani i campioni con cui l’affrontò Capello, si sentirebbe intimamente più sicuro. «Era una grande squadra che in Europa ha fatto meno di quanto poteva», disse intorno a Natale. Sa di non avere le batterie atomiche del Barça, del Real, del Manchester, del Bayern. Tuttavia farà l’impossibile per arrivare ad incontrarle e vedere l’effetto che fa. Il Celtic è l’ostacolo che sbarra il sogno curioso di un uomo in credito con l’Europa. Oggi, debuttando nella conferenza stampa cui non ha mai potuto partecipare, scommettiamo che Conte parlerà di avversari fortissimi, di qualificazione difficile, di impresa vera. Domani, agitandosi in piedi davanti alla panchina sulla quale finalmente si potrebbe sedere, dimenticherà tutto.

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