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  • L'insensibile gestione dell'addio di Totti: Maldini, Del Piero e Zanetti...

    L'insensibile gestione dell'addio di Totti: Maldini, Del Piero e Zanetti...

    • Matteo Quaglini
    Le hanno chiamate a giusta ragione, bandiere. L’hanno fatto perché nella vita come nello sport ci vogliono le suggestioni, i simboli di un sogno, i grandi capitani. Quelli che vanno al di là della fascia, quelli che suscitano emozioni. Lì ha creati, questi immortali del gioco, il calcio del novecento che viveva il racconto dei personaggi come il grande momento d’incontro tra la cronaca e la storia. Sì perché il principio cardine che regge tutto l’architrave del concetto di bandiera è proprio il fatto che loro, le bandiere restano anche dopo la fine della carriera a ricordare le gesta.

    Se ancora oggi parliamo di Facchetti e dei Mazzola Sandro e Valentino, se ancora pensiamo nel nostro immaginario a Boniperti e Scirea, se siamo attratti dalla classe di Rivera o dalla compostezza di Agostino Di Bartolomei o ancora dall’estetica di Antognoni, allora vuol dire le bandiere nel calcio sono a loro modo la sintesi del gioco e una delle espressioni più centrali. Questo è molto interessante se lo rapportiamo a oggi, gli anni del tempo che corre via, veloce e senza memoria. Il punto però qui, non è discutere chi tra la filosofia della memoria e quella del cambiamento abbia ragione. Qui si tratta di capire come siano state gestite, negli ultimi anni, le bandiere del nostro calcio. I Del Piero e i Totti, i Maldini e gli Zanetti. Se nel loro viaggio tra due epoche sono stati con il senso della memoria oppure con quello della cronaca che scorre via. E in fondo un po’ di scontro tra due mentalità differenti c’è ed è forte, a ben vedere.

    Il primo tra questi fu Paolo Maldini. Un fuoriclasse che aveva e ha nel DNA la stimmate della bandiera e che lasciò in modo controverso il grande Milan. Si fece il paragone tra i fischi della curva sud e il ritiro della maglia numero sei di Kaiser Franz, Baresi. Si disse chiaramente che c’era un’incongruenza grande nell’addio di due miti, e che forse quei fischi ad una parte della società servirono per avvalorare la differenza di vedute che esisteva sulla gestione del Milan e che ancora oggi perdura. Uno dei motivi (non l’unico) per il quale la gestione del Maldini bandiera non ha avuto un seguito importante in casa milanista. Una gestione incoerente e fredda perché distante dall’idea berlusconiana del Milan fatto dai milanisti.

    Il secondo caso fu Del Piero.
    La Juventus né gestì il finale con il principio della produzione. Il principio caro all’Avvocato (che pur amava le bandiere) del generare sempre nuovi campioni per continuare a vincere, unito alla freddezza del nipote Andrea e alla durezza di Conte. Si parlò di poco rispetto, di decisione nello stile ”spalle al muro” ma il tutto rientrava nella filosofia di gestione di campioni e bandiere juventine, e cioè la filosofia del cercare sempre il nuovo per essere eternamente vincenti. Può sembrare freddo e in grossa parte lo è, ma è la logica di affidarsi al nuovo campione per sostituire, ringraziandolo, il vecchio. Un’idea condivisa con il River Plate e il Real Madrid in nome della vittoria e della squadra più che della memoria.

    Completamente opposta, fu la gestione di Zanetti, capitano storico dell’Inter. E’ vero che il capitano della Champions lasciò sotto l’interregno grigio di Thohir (assieme agli altri argentini della gloria) ma il principio di gestione fu quello di Moratti. Sia papà Angelo sia Massimo hanno sempre durante le loro presidenze ricordato e chiamato a lavorare le bandiere dell’Inter. Angelo Moratti volle Meazza e altri dell’Inter anni ’30, quella della sua gioventù. Massimo da subito richiamò i Suarez, i Corso, i Facchetti e li mise a dirigere la squadra della loro vita. Su questo principio, romantico e di memoria, si basa la carriera di vice-presidente di Zanetti e l’idea di una carriera da bandiera che continua.

    E siamo a Totti, l’ultima bandiera del nostro calcio. La sua gestione, non solo di ieri, ha lasciato nella città un alone di perplessità e polemica. Più una divisione. Una divisione tra chi sostiene che a 41 anni si debba smettere e che la Roma faccia bene a cercare strade e campioni nuovi, e chi parla di mancanza di rispetto per un grande fuoriclasse. Ieri a Milano, nello stadio che più di tutti l’ha amato, è mancata l’ultima recita del numero dieci. Sintesi estrema di una gestione. Perché il punto non è se Totti debba giocare o no un altro anno, il tempo passa e la fine dei miti arriva. Così come i grandi campioni devono sapere con precisione senza accanirsi quando la luce della loro cronaca finisce, e si accende quella della leggenda. No, il punto è che la gestione del Totti bandiera doveva prevedere l’ingresso finale, non per un contentino, non per ruffianeria, ma per sensibilità. Quel tratto che hanno solo i grandi e significa capire i momenti. Il tributo al grande campione si dà sempre. Perché significa essere a propria volta grandi e pieni delle cose del mondo.

    @MQuaglini

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