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  • La crisi: cosa succede all'Argentina?

    La crisi: cosa succede all'Argentina?

    • Furio Zara
    Cry for te, Argentina. Il Mondiale è a rischio? Tecnicamente: sì. Realisticamente: non così tanto, a meno di altri clamorosi flop. Ok, oggi l’Argentina è quinta nel suo girone, fuori dai giochi, in corsa per lo spareggio che giocherebbe contro la Nuova Zelanda. La vera domanda da porsi non è: ma l’Argentina ce la farà a qualificarsi?, ma più banalmente è: ma perché la miglior generazione di talenti del pianeta calcio non riesce ad essere squadra all’altezza delle - enormi - aspettative? L’ultimo risultato nella corsa verso Russia 2018 silenzia l’entusiasmo che si era creato con l’arrivo di Sampaoli, che invece - dopo l’Uruguay - ha raccolto il secondo pareggio di fila: 1-1 al Monumental contro il Venezuela, ultimo del girone, in campo senza più obiettivi se non quello di fare bella figura. Mettiamoli in fila, i campioni dell’AlbiCeleste. Giusto per vedere che effetto fa. Messi. Il n.1 o n.2 al mondo, fate voi, poco cambia. E poi Dybala. Il suo erede designato, uno tra i fuoriclasse più luminosi di quest’epoca. E poi Di Maria. E poi Icardi. E poi Mascherano. E poi Banega. E in panchina Pastore. E vicino a lui Biglia. E accanto a loro Aguero. E a casa Higuain. Possibile che con tutti questi campioni, fuoriclasse, ottimi giocatori l’Argentina rischi di non qualificarsi per il Mondiale? Oggi la classifica del girone recita così: Brasile 37 punti, Uruguay 27, Colombia 26, Perù e Argentina 24, Cile 23, Ecuador 20, Bolivia 13, Venezuela 8. In Argentina è già tiro al bersaglio contro Messi: “Il migliore non può essere uno dei tanti”, scrive “Olè”. Un anno fa aveva detto: basta con la nazionale. Ci ha ripensato, ma ancora non riesce ad essere quello che gli argentini vogliono. Dovranno farsene una ragione: Messi, con tutto il suo straordinario talento, non sarà mai Maradona. Messi nell’Argentina di oggi è un uomo, con un tentativo di squadra attorno. Maradona era un’intera squadra, riassunta in un solo uomo: lui.

    Fin qua ce avevamo pensato che il problema fosse nel manico. Ovvero in panchina. Il ct Tata Martino è stato - banalmente - un figurante mediocre al servizio dei boss dello spogliatoio e pure sfortunato (ha perso due Coppa America ai rigori, sempre contro il Cile); il suo successore - Bauza - si è rivelato una parentesi infelice. Fin qua tutti a dirci che - storicamente - l’Argentina fatica durante le qualificazioni. Ma la domanda resta la stessa: perché questi non sbaragliano la concorrenza come sarebbe lecito aspettarsi? Se consideriamo il talento puro, solo un’altra volta negli ultimi trent’anni, l’Argentina ne ha avuto tanto come oggi. Ci riferiamo all’Argentina del ’94, quella di Batistuta, Simeone, Redondo, Balbo, Caniggia, Chamot, Sensini e - ovviamente - dell’ultimo Maradona all’altezza della sua fama, convocato dalla Fifa per il Mondiale e poi fatto fuori, con una vera e propria esecuzione chirurgica, vedi alla voce doping. Non era potenzialmente così forte l’Argentina che vinse nell’86 - Maradona più Valdano e Burruchaga, più altri onesti mestieranti - non lo era l’Argentina che nel ’90 arrivò in finale con la Germania, non lo era - forse - nemmeno l’Argentina che tre anni fa è arrivata all’ultimo atto con la Germania. Oggi in meno ci sono Palacio e Lavezzi. In più Icardi e Dybala. La verità ci riconduce a una delle regole basilari del calcio: non basta mettere insieme una batteria di talenti per fare una squadra. L’Argentina di oggi ne è la dimostrazione. Resta un enigma, resta un mistero, resta una generazione che si guarda allo specchio e si vede bellissima, poi si volta e non si riconosce più. 
     

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