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  • Josefa Idem intervista Del Piero: 'Resto in Australia lontano dallo stress'

    Josefa Idem intervista Del Piero: 'Resto in Australia lontano dallo stress'

    Due leggende e la nuova avventura dell’ex juventino: «Ho la sensazione che la gente stia bene. Si vive per vivere, non si pensa solo a lavorare. Ma l’Italia resta il Paese più bello...».
    Incontro Del Piero-Josefa Idem: «Rimango in Australia. Sto lontano dallo stress. E siamo tutti immigrati».
    Incontro Alessandro Del Piero in una mattina australiana assolata, al campo di allenamento del Sydney F.C. Prendo il taxi aspettandomi, chissà perché?, una struttura tipicamente europea, recintata ed accerchiata da tifosi affamati. Trovo invece un’atmosfera diversa, da college americano, condita dal clima e dalla giovinezza tutta australiana: ci sono anche i campi da tennis dell’università e proprio davanti a dove mi siederò per parlare con Ale vedo allenarsi un gruppo di giovani portieri. Alessandro si presenta vestito con un paio di jeans e una polo. È molto rilassato quando mi parla del campionato e della cultura australiana nonché del valore di scoprire nuovi orizzonti. Anche io e la mia famiglia, sempre in cerca di visuali diverse, abbiamo scelto l’Australia per un viaggio lungo un mese e così, per la gioia dei due juventini doc, ci siamo presentati all’incontro pure con i nostri figli. Dopo l’intervista, partendo dal «Sydney Football Club Training Field», mi tocca subito smaltire una delusione, quella del taxista, di origine greca, che mi fa: «Speravo di dover venire a prendere Del Piero! Prima il calcio qui a Sydney non esisteva. Oggi se ne parla tutti i giorni», e mi mostra un giornale della sua comunità con una foto del nostro campione esportato. La grande preoccupazione dei tifosi di football riguardava il futuro, maAlessandro ha fugato quasi tutti i dubbi dichiarando qualche ora dopo il nostro incontro che rimarrà volentieri un altro anno. Tocco così l’effetto Del Piero con mano. Il Del Piero globale rappresenta ciò che accomuna cinesi, slavi, greci, italiani, spagnoli, inglesi, irlandesi: l’amore per il calcio. Sembra un paradosso perché il calcio in Australia non è al primo posto, ma è anche vero che negli uomini, venuti un tempo da mondi in cui questo sport è il numero uno, il Dna c’è ancora. Serviva soltanto chi lo potesse risvegliare. Serviva Alessandro Del Piero.


    Alessandro, non posso non parlare delle curiosità dei tifosi italiani: secondo te esiste una squadra in grado di impedire alla Juve di vincere lo scudetto?
    «La Juve in questo momento è un passo avanti, ma nonostante gli 8 punti di vantaggio dovrà stare in allerta e combattere perché le squadre avversarie sono ottime».

    La squadra di Conte è paragonabile a una tua Juve del passato?
    «Non amo fare paragoni perché ogni squadra ha la sua identità. Indubbiamente la Juventus di oggi ha grandi qualità».

    E la cosa più sorprendente di questa Juve?
    «Non sono sorpreso in quanto le condizioni attuali sono frutto di un percorso che non è nato ieri. Mi sembra che non ci sia nulla di improvvisato in questa programmazione».

    Ti piace la nuova Nazionale di Prandelli e ti sarebbe piaciuto giocare un Mondiale in Brasile?
    «Sì e sì. Il Brasile ha vinto più Mondiali, è una Nazione calcistica che merita grande rispetto per ciò che ha fatto e sarebbe una grande emozione giocare un Mondiale lì».

    Veniamo dunque alla tua esperienza qui a Sydney: ormai ti sarai ambientato, avrai girato un po’. Cosa hai osservato? È più respirabile la vita da queste parti?
    «All’inizio eravamo molto presi dal cambiamento, che è stato totale perché Sydney, con 5 milioni di abitanti, è la città più importante dell’Australia, e ovviamente è molto diversa dalla Torino in cui ho vissuto gli ultimi 19 anni. Poi la città l’ho scoperta così, vivendola da straniero, girando per le strade. Mi sono accorto che l’atmosfera è molto rilassata e genuina. Il calore che ho ricevuto è stato lo stesso dell’Italia, anche se cambiava nei modi e nelle fonti».

    Quindi anche qui ti fermano un po’ ovunque...
    «Beh, sì. Qui poi è un incontro multiculturale. I cinesi sono spaziali, sempre pronti a scattare delle foto, tirano fuori telecamere dappertutto. È molto bello quando incontro degli italiani, in giro oppure al campo dove ci alleniamo, aperto al pubblico: mi fermano, mi ringraziano per essere venuto a giocare nel loro Paese d’adozione. Io, a volte, sono anche un po’ in imbarazzo perché non penso di aver fatto chissà cosa».

    Anzi, un po’ sei qui anche tuo malgrado...
    «Comunque sono bellissimi i racconti di come hanno vissuto le imprese della Juve del passato qui, dall’altra parte del mondo, di come per via del fuso si alzavano alle 4 per vedere le nostre partite. A volte mi mostrano le foto dei loro viaggi a casa. Sono storie diverse rispetto a quelle che mi raccontavano in Italia, ma non per questo meno importanti: in egual misura delineano ciò che il calcio mi ha dato. Avverto molto amore per il calcio nella gente».

    E dire che non è lo sport numero uno in Australia.
    «Questo è vero. Ma poi scopri che ce l’hanno nel Dna e lo dimostra anche il fatto che ci seguono sempre più persone. Dove un tempo in media venivano 7 mila spettatori oggi raggiungiamo anche punte di 36 mila».

    Nonostante abbiate anche perso varie partite in casa?
    «Mannaggia, sì. Avremmo fatto volentieri a meno. Ma vengono lo stesso allo stadio e c’è molto fair play: non siamo mai usciti tra i fischi. Se ci arrendessimo, se non ci impegnassimo, sarebbe diverso. Se la prenderebbero, eccome. Ma vedono l’agonismo, la competizione, percepiscono che siamo in gioco. Allora ci sta anche la sconfitta, e rimane il supporto. Quanto alla società, lì sono molto esigenti, ma al tempo stesso non ci sono grandi patemi attorno ai cattivi risultati che, figuriamoci, a noi giocatori per primi stanno stretti».

    Attualmente in classifica non siete proprio ben messi. Preoccupati?
    «Preoccupati non è il termine giusto. Non ne siamo felici, ovvio, ma restiamo ottimisti anche perché il campionato qui è molto diverso rispetto al nostro. Ci sono soltanto dieci squadre, non ci sono retrocessioni e al termine del primo round in sei vanno ai playoff e si riparte tutti da zero. Dobbiamo darci da fare, su questo non c’è dubbio, ma dal momento che la classifica è corta nulla è compromesso».

    Parlavi prima del multiculturalismodi Sydney. Com’è la convivenza qui? Vedresti qualche modello da esportare?
    «Le cose non sono paragonabili. In Europa, ogni popolo ha il suo Paese, qui sono tutti immigrati. Poi ci sono spazi enormi, la gente non si pesta i piedi. A mio avviso però la differenza sostanziale tra l’Italia, anzi direi tra l’Europa e l’Australia è lo stato economico. Qui la disoccupazione è ai minimi mondiali e allora hai proprio la sensazione che la gente stia bene. Vivono per vivere la vita, non soltanto per lavorare e far quadrare i conti. Di conseguenza c’è meno stress, meno tensione. È ovvio che questo benessere generale ha effetti positivi anche sulla convivenza tra le etnie».

    Te l’avranno chiesto tutti: perché Sydney, proprio dall’altra parte del mondo?
    «Forse l’ho scelta proprio per quello, perché è dall’altra parte del mondo. È stato per il cambiamento totale, dal punto di vista sportivo, ma non solo. Abbiamo visto cose bellissime, anche con i nostri figli con cui abbiamo girato per scoprire gli animali tipici dell’Australia, per vedere la natura. Poi, e questa è una strana scoperta, più giri, più sei meravigliato, e più ti rendi comunque conto che l’Italia è il Paese più bello del mondo. Quel che c’è in Italia non c’è da nessuna parte. Le spiagge, la cultura, la geografia splendida con le montagne che toccano il mare. Poi penso a città come Firenze, Roma, Venezia: inarrivabili! È un peccato che il nostro Paese attualmente non venga vissuto bene».

    Che cosa ti indigna?
    «Da sempre mi hanno sconcertato le violenze sui bambini, ma da quando sono nati i miei figli, la mia sensibilità in tema si è ancor più acutizzata. Poi, quando succedono cose come l’ultimo massacro negli Stati Uniti, mi vengono i brividi. Ecco, in quei momenti, oltre che essere indignato sono profondamente irritato. È davvero qualcosa di inconcepibile per me».

    Un po’ non ti indigna anche la mala politica in Italia? Comene usciresti tu?
    «Io mi intendo di sport e lo sport ci insegna che se un allenatore è bravo e sa amalgamare bene la squadra, se fa rispettare le regole e punta sull’unione delle forze, è già a metà dell’opera».

    Questa sì che sarebbe anche una bella cultura politica! A proposito di cultura: hai notato delle diversità qui nel modo di fare sport rispetto alle altre realtà che conoscevi?
    «Certo che l’ho notata, non puoi non accorgertene! Vedi gente muoversi da tutte le parti e a qualsiasi ora. Quando mi alzo alle 6 —qui l’allenamento lo facciamo presto per via del caldo — e guardo fuori dalla finestra, vedo già tantissimi che corrono, che fanno palestra all’aperto. Fanno corsi di yoga nei parchi, si danno appuntamento per fare attività insieme».

    Come te la spieghi questa capillare cultura sportiva?
    «I miei figli più grandi — si fa per dire, il più grande ha soltanto 5 anni — frequentano l’asilo e già lì fanno attività sportiva. Sarà perché dai primi passi respirano aria di sport, sarà perché qua c’è quasi sempre bel tempo, non lo so, fatto sta che è proprio bello vedere tutto questo movimento».

    Tu sei un modello per tanti giovani, la categoria più colpita della crisi italiana. C’è chi li giudica un po’ privi di spinta. Cosa diresti a chi li colpevolizza così?
    «Innanzitutto credo di essere ancora troppo giovane per poter esprimere giudizi in merito ai giovani. Poi penso che sia sbagliato puntare il dito su di loro oppure sul colpevole di turno. C’è la volta in cui danno la responsabilità alle famiglie, dopo tocca alle scuole, all’università, a Internet. Io credo che sia ora di smetterla con queste colpevolizzazioni perché siamo tutti chiamati a rimboccarci le maniche. Nel caso particolare dei giovani ci deve essere una partecipazione a tutti i livelli riguardo alla loro crescita. Solo così possono diventare protagonisti».

    Stai già pensando al dopo carriera?
    «Fortunatamente no. Mi rifiuto di pensarci. Il mio fisico regge, mi diverto ancora molto a giocare e a migliorare ogni giorno. Ovviamente coltivo altri interessi, ma non stanno diventando progetti per il futuro perché ora, per rendere al meglio, ho bisogno di stare concentrato su ciò che sto facendo. Se cominciassi a pensare che voglio fare l’allenatore finirei per entrare in campo dicendo agli altri cosa devono fare e intanto io non farei niente. Vivo il momento e al dopo ci penso... dopo».

    Ci salutiamo con una stretta di mano, scambiandoci gli auguri di Buon Natale. E lascio il campione colpita innanzitutto da un aspetto: la delicatezza con la quale fa le sue valutazioni in merito alla diversità delle culture che sta mettendo a confronto. So per esperienza diretta che chi va alla scoperta di nuovi orizzonti spesso è invitato a esprimere giudizi quando invece questi viaggi non sono mai una sottrazione, ma un arricchimento.

    La chiacchierata col piccolo Jonas: «Io e la Juventus: tutto bellissimo».
    Anche Jonas Idem, 9 anni, figlio minore dell’ex canoista azzurra, in viaggio in Australia con la madre, ha voluto rivolgere alcune domande ad Alessandro Del Piero.

    1. I tuoi tre figli praticano sport?
    «I mie figli giocano a calcio, a tennis e nuotano. Fanno attività un po’ alla scuola materna e nei corsi che frequentano il pomeriggio. Per il momento la cosa più importante è che si divertano».

    2. Qual è stato il tuo miglior amico alla Juventus?
    «Ovviamente coi giocatori coi quali ho fatto anche le giovanili al Padova e poi alle Juve c’è un rapporto molto profondo. Ma se parliamo di amicizia non farei classifiche anche perché ho la grande fortuna di avere ancora uno splendido rapporto con tanti di loro».

    3. Cosa ti è piaciuto di meno della Juventus?
    «Avrei preferito perdere qualche finale in meno. Per il resto la mia storia con la Juve è stata bellissima».

    4. Qual è il gol che ricordi con più affetto?
    «Ci sono stati gol che sono stati degli spartiacque, uno dei primi per esempio è stato quello contro la Fiorentina che ci ha lanciato verso lo scudetto (stagione 1994-95, ndr). Poi il massimo che puoi chiedere al tuo sport è quando segni e sei protagonista in una finale intercontinentale».

    5. Quali sono state le squadre italiane più difficili da affrontare e perché?
    «Di sicuro il Milan e l’Inter che sono grandi società e grandi squadre che hanno sempre ottenuto ottimi risultati».

    6. Sei contento del rendimento della Juve in Champions?
    «Molto, molto contento. Perché non era partita subito bene, ma poi si è rifatta alla grande».


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