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  • La lezione di una mamma: calcio e sport contro la violenza a Napoli

    La lezione di una mamma: calcio e sport contro la violenza a Napoli

    • Mattia Di Lorenzo
    Il 18 dicembre scorso, quando suo figlio Arturo, vittima dell’efferato agguato di una baby gang, è arrivato ad un passo dalla morte, il suo cuore di mamma è stato messo a dura prova, ma ha resistito. Da allora però, Maria Luisa Iavarone ha sfoderato il meglio di sé. Ed oggi si batte con verve leonina, determinata ad andare fino in fondo nel contrasto al fenomeno delle violente bande di giovanissimi che imperversano in città. Mai un congiuntivo fuori posto nelle apparizioni in tv, la contraddistinguono anche uno stile elegante e la padronanza delle argomentazioni. Ma pure la capacità di calarsi in contesti difficili, senza far pesare la sua caratura intellettuale: come nella circostanza del confronto con la madre di uno degli aggressori di suo figlio. L’appellativo di madre coraggio le starebbe sicuramente stretto, e tuttavia non si può non riconoscerle una vis attrattiva che ha guadagnato alla causa della sua battaglia – che è anche una sfida ostica per Napoli – la convergenza delle istituzioni e di tutte quelle cellule sane della città. Se oggi sul dilagare della pericolosa devianza delle baby gang la guardia è altissima, molto lo si deve a questa donna, colta ed appassionata, ferita, ma rimasta più che mai in piedi, e che ripone grandi speranze anche nel valore dello sport e nella sua capacità di prevenire possibili degenerazioni. Le abbiamo rivolto qualche domanda.

    Le ferite fisiche di Arturo presto saranno cicatrizzate. Restano quelle dell’anima che per Napoli, nell’immaginario collettivo percepita come terra d’amore, rischiano di essere uno sfregio permanente. La città ne verrà fuori?
    Se la città ne verrà fuori? È quello che spero fermamente. Quanto meno abbiamo tutti l’obbligo di provarci ed io in particolare questo sforzo lo devo ad Arturo. Sin dall’inizio di questa storia ho provato a non ripiegarmi mai, a non cedere, neanche per un solo istante, al dolore cieco o alla tentazione di abbandonarmi al risentimento o al rancore. Mi sono sforzata di offrire innanzitutto ad Arturo e alla città un “exemplum” di dignità e di sforzo di comprensione. Se fossi stata capace, anche solo in parte, di ribaltare il messaggio e fare di quel corpo sfregiato un simbolo di indignazione e di riscatto forse anche quel sacrificio sarebbe apparso non del tutto vano. Ritengo che “il male che segna sia un male che insegna” e noi tutti da quel male abbiamo molto da imparare!

    Gli aggressori di suo figlio sono stati tutti assicurati alla giustizia. Lei ha però fatto sapere che con l’arresto dei componenti della baby gang che usò inaudita violenza ad Arturo, non si esaurisce il suo impegno nella lotta alla violenza giovanile. Si è anche augurata un reinserimento adeguato nella società dei ragazzi colpiti dai provvedimenti giudiziari. A tal fine, quale ruolo può esercitare lo sport?
    Intanto tengo a specificare che dei quattro responsabili soltanto per tre sono state previste misure di custodia, mentre il quarto risulta non imputabile perché ahimè soltanto tredicenne. Questo fatto mi procura particolare sconcerto e mi rinforza nell’idea che bisogna fare molto di più nella prevenzione e nella rieducazione. Non si deve a mio avviso abbassare l’età della imputabilità ma dell’intervento. Con uno slogan spesso ripeto che non bisogna aumentare la repressione ma abbassare l’età della prevenzione. Non si può tollerare che ragazzini poco più che bambini girino per strada armati senza alcun dispositivo di senso nelle loro menti, incapaci di stimare gli effetti dei loro gesti e che si rendono responsabili di crimini così efferati. Lo sport certamente è un potente deterrente del rischio sociale, allontana da sempre i ragazzi dalla strada, ma per avvantaggiarsi degli effetti benefici della pratica sportiva ci vuole comunque educazione all’impegno, al sacrificio e al valore delle regole.

    L’eminente psicoterapeuta Michele Rossena, peraltro napoletano, ha recentemente parlato di vulnus familiari, tra i quali la mancanza di disciplina. Una carenza che a suo dire spalanca fatalmente le porte della strada anche ai giovanissimi. Lo sport, fin dalle sue origini, è innanzitutto disciplina. Può dunque rivelarsi efficace antidoto per respingere la calamita di di quel fitto reticolo di tentazioni che si snoda oltre il confine familiare e, allo stesso tempo, configurarsi come valido soccorso alle famiglie?
    Come dicevo pocanzi lo sport è fondamentale ma da solo non basta. E’ uno strumento potentissimo ma come ogni strumento perché sia utile bisogna imparare a maneggiarlo adeguatamente, altrimenti rischiamo di non farcene nulla. La pratica sportiva senz’altro abitua al sacrificio, a tollerare la fatica e lo sforzo, educa all’impegno quotidiano ed aiuta una migliore connessione corpo-mente. Ma tutte queste potenzialità vanno fatte comprendere e bisogna accompagnarne la scoperta. Questi valori vanno insegnati per il tramite di educatori sportivi adeguatamente formati capaci di accompagnare il disagio, contenere il rischio anche fronteggiando corpo a corpo ragazzi non facili la cui regola è vivere senza regole.

    I giovani, si sa, si alimentano di miti e simboli. Un tempo per i ragazzi dei vicoli e delle periferie,questi simboli, erano i grandi campioni dello sport. Spesso, per ciò che concerne Napoli, gli esempi da imitare si identificavano con i campioni della squadra di calcio della città. Oggi sono purtroppo soppiantati dai nuovi “guappi” della serie Gomorra. La cartolina di Napoli con gli scugnizzi che, dai Vergini alla piazza del Plebiscito, inseguono il “super santos” con genuino agonismo in partite improvvisate, con gli androni dei palazzi a far da porte, è irrimediabilmente imbrattata?
    Io non sarei così manichea, queste scene da lei descritte continuano a convivere in un panorama in cui coesiste il vecchio e il nuovo. D’altra parte Napoli è tradizionalmente la città in cui convivono antinomie e rappresentazioni opposte della postmodernità. I miti di oggi continuano ad essere, come ai tempi di Maradona, i bravi calciatori e i neomelodici e perché no…. anche gli attori di Gomorra. Io le confesso che questa analisi non mi appassiona, non credo che la violenza possa dipendere prevalentemente da ciò che i ragazzi vedono, ma piuttosto da come ciò che vedono risuona nella loro mente. Se certe immagini o certi “modelli” incontrano terreno fertile dipende evidentemente dalla natura del terreno.

    Purtroppo nonostante il suo impegno, che ha contribuito come non mai a dare risonanza mediatica al fenomeno delle baby gang, e nonostante il grande lavoro delle forze dell’ordine, è di appena qualche giorno fa l’ultima scorribanda sul lungomare, della quale hanno fatto le spese tre diciassettenni. Insomma, piuttosto che un arretramento dell’emergenza, sembra ci si debba rassegnare ad una vera e propria escalation. Nel nord Italia si sono registrate esperienze di ricercata sinergia tra scuola, famiglia, parrocchie. È questo il combinato disposto da seguire, per creare un filtro tra strada e famiglia, oppure si tratta di un modello, per così dire demode’?
    Quello a cui lei fa riferimento è stata l’utopia degli anni ’70: il cosiddetto Sistema Formativo Integrato che avrebbe dovuto tenere insieme in maniera convergenze e condivisa le principali agenzie formative come famiglia, scuola, associazionismo, polisportiva, chiesa. La famosa “rete” meglio nota tra anni ‘80 e ’90. Di questi progetti di parla da oltre trent’anni. Quello che appare sempre complicato è arrivare ad una regia unitaria. Come per un puzzle: è fondamentale trovare gli incastri giusti tenendo d’occhio il disegno complessivo. Per questo ho pensato al Modello A.R.T.U.R. (Adulti Responsabili per un Territorio Unito contro il Rischio) proprio perché tutto deve ruotare intorno al principio della responsabilità come disegno complessivo per la prevenzione educativa.

    A maggio la gara podistica che lei stessa ha annunciato anche sui social la settimana scorsa. Quale il valore simbolico e le prospettive che possono aprire iniziative del genere?
    La gara è un simbolo ma è anche un’azione. L’idea è che ora dobbiamo muoverci per fare autenticamente qualcosa di concreto. Verranno invitate tutte le principali società sportive cittadine, testimonial del mondo dello sport e dello spettacolo, ma soprattutto cittadini e gente comune. L’idea è costruire una rete di soggetti e di operatori dello sport che vogliano donare un po’ del loro tempo e delle loro risorse materiali e professionali per finanziare un campo scuola per minori a rischio.

    I campioni del Napoli calcio, attesa la pervasiva popolarità della squadra e il suo ascendente sulla città, possono offrire un valido contributo sul versante del contrasto alla degenerazione giovanile? Lei e le organizzazioni che ha da ultimo tenuto a battesimo, avete sollecitato la società di De Laurentis affinché faccia di più per attrarre giovani e giovanissimi, contestualmente distraendoli dal sinistro richiamo delle tante voci della violenza?
    La SSCN (Società sportiva calcio Napoli) ha manifestato la vicinanza ad Arturo sin dai giorni dell’ospedalizzazione facendogli recapitare al suo letto di ospedale un pallone autografato. Non ho avuto ancora il piacere tuttavia di interagire in maniera diretta con nessuno dei dirigenti della società ma in questi giorni mi riprometto di farlo senz’altro nella certezza di incontrare disponibilità ed attenzione.

    A conclusione di un ciclo di incontri dal tema “Napoli raccontata come un romanzo”, voluto dall’editore Laterza, lo storico Luigi Mascilli Migliorini ha affermato che Napoli può essere riconosciuta nel mondo per Croce, per Vico, ma anche per Maradona, e che il biglietto “Napoli”, vale ancora moltissimo. Alla luce delle pericolose dinamiche detonate dalla vicenda di Arturo, non le pare che questa sia una ricostruzione scollegata dalla realtà?
    Napoli è una città che nei secoli ha attraversato gravissime crisi dimostrando però risorse e capacità di rinascere dalle ceneri. Questa volta tuttavia la crisi è legata ai valori di una cultura millenaria che sembra aver smarrito la sua cifra umanitaria più autentica, cedendo alla barbarie della violenza. Credo sia questa una crisi da cui si può sperare di uscire solo se si è in grado di ritrovare il senso di comunità, e di unità nell’orgoglio di risentirsi una città che ce la può fare: proprio come al 90º minuto di una partita, quando si spera sempre di poter ancora segnare.

    Tratto da www.rivistacontrasti.it

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