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  • La notte che Anastasi oscurò il Che

    La notte che Anastasi oscurò il Che

    • Marco Bernardini
    Tra undici giorni esatti si inizierà il campionato europeo di calcio. Quarantotto anni fa, il 12 giugno, l’Italia batteva la Jugoslavia ai supplementari nella finale bis e vinceva la prima e unica Coppa continentale della sua storia. E’ il 1968. Un anno anche lui destinato a rimanere unico, come il successo degli azzurri, sui libri e nella memoria. Due eventi speciali in un solo contenitore sui quali vale la pena soffermarsi perché offrono l’opportunità di narrare una sorta di fiaba che si sviluppa su due piani differenti e paralleli i quali, per una notte, vanno a incontrarsi in un punto chiamato passione. La racconto così, senza aggiungere e né togliere nulla alla nuda verità. E’ una favola vera e bellissima.

    “I compagni che ieri notte sono andati in piazza con la bandiera tricolore a fare casino per la vittoria dell’Italia sono dei pezzi di merda”. Si chiamano “taszebao”. Tradotto dal cinese, manifesti murali usati dalle guardie rosse di Mao Tse Tung per la propaganda della rivoluzione culturale. Campeggia davanti al portone di ingresso di Palazzo Nuovo a Torino dove ha sede l’Università di Lettere, Filosofia e Scienze Politiche. Parole dure su quel manifesto scritto per provocare sensi di colpa sui quali, sicuramente, verrà aperta una “discussione politica” nell’aula magna della Facoltà. Sono le nove del mattino. Ho gli occhi pesti e  un nido di vespe dentro la testa. E’ il frutto della notte in bianco consumata tra festeggiamenti, balli e barbera a gogò per le vie della città. Sono uno dei (tantissimi) compagni che hanno tirato l’alba facendo casino per la vittoria dell’Italia agli Europei. Non avevo la bandiera sulle spalle dell’eskimo, ma il cuore juventino sì. E proprio un idolo bianconero, Pietro Anastasi, aveva provveduto a scardinare la cassaforte jugoslava concedendo poi a Gigi Riva la gioia del bis. Di una cosa ero certo. Non mi sentivo un “pezzo di merda”. Manco un poco. E se, durante i cortei del sabato, scandivo il nome di Ho-Chi-Min, quella notte avevo urlato sillabandolo quello di Ber-ce-llin(o) detto “Roccia” bianconera. Felice di averlo fatto.

    I leaders del Movimento Studentesco, da Adriano Sofri a Guido Viale e da Massimo Negarville a Paolo Hutter, non vorrebbero ammettere repliche. Non il gioco del pallone ma la struttura del calcio inteso come azienda che fa capo ai padroni è “controrivoluzionario” sicchè fenomeno di festa inammissibile per i compagni i quali sono tenuti a scendere in piazza nel nome di Mao e del Che Guevara piuttosto che in quelli dei rappresentanti del capitalismo consumista. Pazzi stalinisti? Forse, ma occorre capire il momento storico prima di esprimere giudizi. In quel momenmomento abbiamo ancora tutti addosso e dentro l‘anima il ricordo dei suoni e dei fuochi che, un mese prima, avevano fatto tremare il quartiere Latino di Parigi dove un milione di persone, tra operai e studenti, erano scesi in piazza provocando non poche fantasie autoritarie nella testa del generale De Gaulle. In Italia avevamo afferrato la coda del “Maggio francese” e avevamo cominciato a cavalcarla come indomiti e sognanti cavalieri al grido di “ce n’est que un dèbut continuons le combat”. E giù botte con i poliziotti senza renderci conto, come fece poi notare Pier Paolo Pasolini, che loro erano i veri proletari contrariamente a tanti “rivoluzionari” figli di papà.

    Andava a quel modo. Ciò che oggi è la “monomaniacalità” del calcio allora era il totale abbandono del proprio ego alla politica. Non quella dei partiti, ma quella assai più nobile che induceva a schierarsi contro ogni forma ingiustizia sociale ed etica oltreché alle regole del capitalismo liberista sfrenato proposto principalmente dagli Stati Uniti con le quotidiane carneficine in Vietnam, l’assassinio di Martin Luther King, l’omicido di Bob Kennedy e al cui modello si adattavano adeguandolo al fascismo Paesi come il Messico con la strage pre-olimpica di cento persone raccontata da Oriana Fallaci. Nel nostro piccolo possiamo mettere in conto i braccianti morti ammazzati di Avola e i trecentocinquanta del Belice vittime non solo di una natura matrigna. E’ certamente dura poter digerire le immagini dei carri armati del Patto di Varsavia che, il venti agosto, entrano a Praga per cancellare la “primavera” di Dubceck. Ma che dire, allora, del “marines” i quali nel villaggio di My Lai fanno una strage di 450 vietnamiti tutti donne, vecchi e bambini? Eppoi, in Germania due “nazi” mai presi sparano in  testa a Rudy Dutschke il leader del Movimento tedesco che rimarrà segnato per tutta lla vita. Insomma,“contiuons le combat”.

    Sono questi, in linea di massima, i fili che compongono il disegno di un anno senza più eguali come il Sessantotto. Una stagione della nostra vita dedicata completamente e in buona fede al Sogno per un mondo più giusto e compatibile anche con la natura da poter lasciare in eredità a chi sarebbe venuto dopo di noi. Un’ illusione assassinata l’ultima notte dell’anno davanti al dancing per vip “La Bussola” di Focette in Versilia quando un colpo di pistola colpisce alla schiena Soriano Ceccanti, manifestante pisano che tenta di sottrarsi dalle cariche della polizia e che ancora oggi vive su una sedia a rotelle. 

    In quel momento si capì che le cose rapidamente cambiando e che  il “pacifismo e la ragione” intellettuali stavano per lasciare il terreno al “terrorismo e alla sragione” brigatisti. Per questo, a distanza di quarantotto anni, sono felice che, anche se soltanto per una notte, Anastasi e Riva abbiano “oscurato” Mao e il Che Guevara.

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