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  • Lo sfogo di Amauri 'Non sono un giocatore finito'

    Lo sfogo di Amauri 'Non sono un giocatore finito'

     

    Venerdì 13 aprile 2012, in chiaro su Premium Calcio alle ore 23.00, nuovo appuntamento con "La tribù del calcio", la rubrica curata da Paolo Ziliani per i veri appassionati del pallone.

     

    Nella puntata di domani, un’intervista esclusiva ad Amauri, centravanti della Fiorentina che ha raccontato tutto della sua vita e della sua carriera di calciatore.

     

    A proposito dei primi anni in Brasile, Amauri dichiara: “Ho fatto qualsiasi tipo di lavoro e nel frattempo mi allenavo: qualcuno mi notò e mi portò a fare un provino nel Santa Catarina, un club di serie B che si trovava a dieci ore da San Paolo. Iniziai a segnare con continuità e a gennaio mi inserirono in una rappresentativa che partecipava al torneo di Viareggio. Venni in Italia, riuscii a mettermi in mostra, ma le squadre italiane non mi potevano tesserare. Così finii in Svizzera, al Bellinzona, in serie B: poi, all’inizio della stagione successiva, l’allenatore mi disse che per me non c’era più spazio. Di colpo mi ritrovavo da solo, senza famiglia, senza amici, senza nessuno”.

     

    Mi spedirono in Belgio a fare un provino – continua Amauri –, ma in pratica rimasi prigioniero in un albergo una settimana. Così tornai in Italia ed andai a Torino, dove per due mesi, è la verità, ho vissuto praticamente da clandestino. Un giorno mi chiamò Grimaldi, che poi sarebbe diventato il mio procuratore, e mi disse di prendere il primo treno per Napoli. Non sapevo neanche chi fosse, questo Grimaldi, ma saltai sul treno e dopo dieci ore arrivai a Napoli. Per due settimane mi allenai in strada. Poi iniziai a giocare con la Primavera e dopo un po’ venni aggregato alla prima squadra: da quel giorno iniziai a vedere un po’ di luce”.

     

    Dopo alcune esperienze a Piacenza, Messina e Empoli, Amauri finisce alPalermo di Maurizio Zamparini e poi alla Juventus: “Arrivare in una grande squadra è sempre stato il mio sogno. Il giorno che firmai per la Juve avevo un entusiasmo incredibile. Il primo anno fu meraviglioso, il gol al Real Madrid è ancora il mio ricordo più bello. Il secondo anno, invece, con Ferrara le cose non andarono troppo bene. Nella terza stagione ritrovai Del Neri, che era stato mio allenatore al Chievo, ma per me fu ugualmente un anno terribile. A dispetto di tanti problemi fisici, mi misi sempre a disposizione e giocai partite che non avrei dovuto giocare. Volevo sacrificarmi per la squadra, ma alla fine il sacrificato sono stato io. A gennaio tutti cominciarono a prendermi di mira dicendo che stavo rifiutando il trasferimento in altre squadre. Tutte balle, ma capii che ormai per me alla Juve non c’era più spazio. Così andai a Parma dove ricominciai a vivere e a sorridere”.

     

    Il prestito a Parma conclude e Amauri, che torna a Torino, ricorda così quei giorni: “Ero tornato alla Juventus con grande entusiasmo. Ma dopo due soli giorni di ritiro, la grande voglia di riscatto che avevo era completamente svanita. Mi sono ritrovato infatti ad allenarmi da solo a mezzogiorno, oppure alle due o alle tre del pomeriggio, sotto un sole a 35 gradi, fino a che non ce l’ho più fatta e ho chiesto alla società di potermi allenare con la Primavera. Ho provato anche a parlare due volte con Conte, ma è stato inutile: non ho mai capito il perché di tanto accanimento. Mi trattavano come se avessi fatto un torto a qualcuno, come fossi un giocatore marcio nello spogliatoio, quando io invece sono andato sempre d’accordo con tutti”.

     

    Infine Amauri, ora alla Fiorentina, parla anche del suo tormentato rapporto con la Nazionale, a lungo conteso da Brasile e Italia: “Non mi sono mai pentito di aver scelto l’Italia. Anzi, ora che la vicenda è chiusa posso raccontare una volta per tutte la verità: sono stato io che ho rifiutato il Brasile. Quando Dunga mi chiamò in sostituzione dell’infortunato Luis Fabiano, dissi ad Alessio Secco, allora direttore sportivo della Juventus, che non volevo andare per aspettare la chiamata dell’Italia. La Juventus mi coprì e si prese la responsabilità di tutto: disse che si era opposta a Dunga perché la convocazione era arrivata fuori tempo massimo. Così, il giorno che Prandelli mi convocò fu uno dei più belli della mia vita: vestire la maglia azzurra per me vale molto più di uno scudetto. Viaggiavo in macchina verso Coverciano e nella mia testa proiettavo il film, tanto movimentato, della mia vita. Avevo fatto tanti sacrifici e quando tutto sembrava andare per il verso giusto, succedeva sempre qualcosa di sbagliato. Ma non ho mai mollato e come vedete non mollo neppure adesso. Non sono un giocatore finito, ho ancora voglia di spaccare il mondo. E siccome mi conosco, so che ci riuscirò”.

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