Calciomercato.com

  • Lucescu:| 'Juve esemplare, altro che il Milan'

    Lucescu:| 'Juve esemplare, altro che il Milan'

    In campo dà spettacolo, utilizza strutture fantascientifiche, ha già quasi vinto il campionato e messo sotto il Chelsea, tutti vogliono le sue star. Mircea ci guida tra i segreti dello Shakhtar.
    Lucescu: "Il mio calcio illuminato".
    «Troppo facile spendere 100 milioni per i migliori. Noi li prendiamo giovani, li cresciamo e i risultati li vedete...».


    Rewind. Lucescu, come ci è finito lei allo Shakhtar?
    «Hanno iniziato a cercarmi al Galatasaray. Ne sapevo poco, incontrai un loro rappresentante a Bucarest. Il presidente doveva mandarmi un aereo, ma c’era maltempo e non se ne fece niente. Vinsi il campionato, andai al Besiktas, lo rivinsi e buttai fuori in coppa la Dinamo Kiev. Lo Shakhtar mi invitò di nuovo, venni qui e al presidente dissi ancora no: volevo giocarmi la Champions. Akhmetov poi venne a Istanbul: altro no. Mi fa: "Hai vinto due campionati di fila, non te ne fanno vincere un altro". Andammo a +11, ci successe di tutto e capii che aveva ragione. Mi invitò di nuovo, e gli promisi: riparliamone. Finì la stagione, me ne andai qualche giorno in Italia e lui mandò pure lì un aereo. Arrivai a Donetsk e mi presentò a tutti come nuovo allenatore. Che potevo fare?».


    Cos’ha portato a Donetsk?
    «Esperienza, fiducia, e la convinzione che si poteva vincere. Arrivo io, e per 2 anni vinciamo il campionato contro la Dinamo Kiev. E non era facile, il loro presidente era pure presidente della federazione…».

    Dietro lo Shakhtar c’è un’idea mica da ridere. Come l’ha impiantata?
    «Ho dato un gioco a quelli che avevo, e ho costruito dietro una squadra di giovani».

    Già, ma i brasiliani?
    «All’epoca il Barcellona prendeva i migliori. Io dissi al presidente che non potevamo permetterci quelli già formati: qui non vengono, e se vengono è per soldi. Quindi decidemmo di prenderli giovani, di talento, ed educarli fino ad avere giocatori completi. Si dice che ne puoi prendere uno, due, dopo il terzo fanno gruppo a sé. È vero, fanno gruppo, vivono la loro cultura, ed è giusto. L'abilità sta nel rispettarli e fare in modo che si integrino».

    All’inizio non era facile prenderli…
    «Difficilissimo. Qui c’era solo Brandao ma non si adattava. Così prendemmo Matuzalem: giovane, formato, di "nome". Con lui è stato più facile convincere gli altri, ora in Brasile tutti parlano dello Shakhtar e sono loro a voler venire. Ci ho provato pure con Neymar, a 16 anni. Devi lavorare per farli diventare professionisti per l’Europa, lì sono molto "allegri"».

    Oltre loro, il segreto qual è?
    «Ci sono 2 modi per fare la squadra: coi soldi, se non hai tempo, o coi giovani. Nel secondo caso il gruppo te lo ritrovi per 10 anni, basta cambiarne un paio per volta. Il segreto è questo: chi comanda ha una filosofia, trova un allenatore che ha la stessa filosofia e la trasmette ai giocatori. Se tutti pensano nella stessa direzione, arrivano anche i risultati».

    Ci definisce in principi la sua filosofia?
    «Primo: educazione. A ogni livello: fisica, culturale, igienica. Secondo: atteggiamento. Chi è negativo non può stare con me, giochi o no devi essere positivo, qui non ci sono stelle o divi. Terzo: disciplina. Non multo mai i giocatori, maci parlo. Una volta, due, tre, poi non lascio che la mela marcia danneggi gli altri. Quarto: selezione. Ho l’ultima parola sul mercato, li cerco di carattere, intelligente, responsabile. Poi la preparazione. Tanti allenano per esercizi, io per principi. In campo tutti devono esprimersi allo stesso modo».

    Tutto ciò come si riflette sul gioco?
    «Il mio Brescia dava spettacolo. In Turchia avevo il miglior attacco. Alla Dinamo Bucarest (1988-89, ndr) facemmo 130 gol e questo Shakhtar se vuole può farne serenamente 100. Io alleno i sincronismi e l’organizzazione, e creo varietà di gioco. I miei ragazzi sono obbligati a pensare tante varianti, scelgono loro la migliore. Quando sono arrivato qui, Lobanovski era il vincente e tutti giocavano come lui: marcature a uomo e libero. Poi hanno visto lo Shakhtar che vince con un sistema dinamico, e hanno cambiato. Non sono schiavo dei moduli, in carriera li ho usati tutti».

    E poi?
    «E poi il risultato. Ma non me ne faccio nulla di successi che oggi arrivano e domani no. Voglio una base sicura, poi il risultato viene da sé. Certo, puoi fare come i grandi allenatori oggi: spendi 100 milioni e compri i 4-5 più forti. Ma così è facile. Il difficile è educare i giocatori, far capire loro dove sbagliano, caricarli. E nel frattempo penso al futuro. Se uno parte, ho già il sostituto pronto in casa, che per 1-2 anni ha lavorato per essere pronto».

    L’età media in panchina si è abbassata parecchio, come le vede le nuove leve?
    «Sono fortunati, hanno la possibilità di osservare, studiare. Primaera tutto segreto, io non potevo vedere altri allenare o leggere. Sono stato molto esigente coi miei tecnici, volevo sapere il perché di tutto. Ora i giovani sono focalizzati sulla tattica, ma hanno un po’ dimenticato le basi, la tecnica».

    Pure lei sorprende: cambia spesso ruolo ai giocatori, per esempio...
    «Se uno sta bene e capisce i principi che la squadra applica, può giocare ovunque. L’importante è che faccia quello che serve, perciò li alleno tutti in varie situazioni. Ha presente Mkhitaryan? Qualche gara fa l’ho messo terzino sinistro. Con i giovani poi serve pazienza. All’Inter arretrai Pirlo, contro la Juve tentò un dribbling in più nel nuovo ruolo, Inzaghi gli tolse palla e andò in porta. E io la partita dopo lo riproposi lì».

    Altro rewind: si ricorda di quando arrivò a Pisa?
    «Era il 1990, avevo vinto campionato e coppa con la Dinamo. Anconetani venne a vedermi in Romania, e promisi che sarei andato da lui».

    Che calcio trovò?
    «Le racconto questa. Dopo Pisa ero del Porto: andai lì con mia moglie, Pinto da Costa mi mise per due giorni in un appartamento in segreto, firmai. Poi stracciai l’accordo e decisi di rimanere da voi, a Brescia. Ero innamorato dell’Italia, l’unico Paese dove ogni squadra giocava un calcio diverso. Non c’era la federazione che ne imponeva uno, come in Spagna o in Francia. L’allenatore poteva creare, se aveva libertà di farlo. Ecco, quella spesso non c’era: i presidenti vivevano di calcio e ti facevano pressioni per far giocare l’uno o l’altro, per venderli. E qui mi resi conto di un’altra cosa…».

    Cioè?
    «Il campionato migliore in Italia era la B, il campionato degli allenatori. La Aera il campionato dei presidenti, chi ha più soldi vince. La B italiana produce allenatori, quelli bravi devono andare lì».

    Da noi poteva nascere qualcosa tipo Shakhtar?
    «Come no, mameli vendevano tutti. Portai il Brescia in A e Corioni ne diede via quattro. Lo stesso a Pisa, così era impossibile. Mi mancava questo tipo di rapporto tra presidente e allenatore. In Italia un allenatore non può essere protagonista, ha bisogno di tempo e titoli per essere stimato. I presidenti cercano di svicolare e cambiare tecnico per essere loro i protagonisti. Sono gelosi».

    Un po’ però il cuore a Brescia l’ha lasciato…
    «Forse ci sono rimasto troppo ma mi sono innamorato della gente, della città. "Quanto sono stato stupido a lasciarti andare", mi dice Corioni. E certo: con me i giocatori li vendeva sempre…».

    A livello internazionale l’Italia arranca: dove ci siamo fermati?
    «Innanzitutto, avete snobbato un po’ l'Europa. Per esempio, quando ho visto il Napoli che ha giocato in casa del Dnipro con le riserve ho detto: "Impossibile". Puoi cambiarne un paio ma non mezza squadra, così dai l’impressione che non ti interessa. L’Europa ti guarda, qui spesso sbagliate. I mezzi per risalire ci sono. Però vincere e piazzarsi bene non dev’essere un traguardo, ma una tappa per l’Europa».

    Esempi da seguire?
    «La Juventus: stadio di proprietà, serietà, atleti educati secondo lo spirito del club. Non gente che viene così, per un anno o due: li prendono giovani, crescono con la squadra, le danno tutto. Anche l’Inter ha preso questa via. Il Milan invece è rimasto col suo modo di pensare: li prende a fine contratto, di nome, pensa molto all’immagine e poco a costruire. Come fai a costruire con gente di 34-35 anni? Non saranno mai parte della tua anima».

    La Juve viene qui la prossima settimana…
    «La rispetto molto, ho seguito il processo che l’ha riportata in alto, fino ad avere di nuovo una squadra capace di lottare e vincere anche in Europa. E non lo fa solo coi giovani: guardate che motivazioni hanno gente come Pirlo o Buffon…».
     


    Altre Notizie