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  • Malesani:| 'Un calcio all'egoismo'

    Malesani:| 'Un calcio all'egoismo'

    « La mia fortuna è che prima del cal­cio ho conosciuto la fatica e i ritmi dell’azienda, ero responsabile del­la logistica alla Canon. La sfortuna è che da vent’anni lavoro in questo mondo del pallone che amo, è la mia vita, ma in cui le regole a­ziendali sono labili e spesso saltano del tutto». Debutto sparato di Alberto Malesani che di que­sto mondo da sempre combatte «il finto e inu­tile “politicamente corretto”. Perché voglio es­sere un uomo libero, anche di sbagliare...». Con il Bologna rivelazione degli ex “poveri ma bel­li” (sei mesi senza stipendio, prima dell’arrivo della nuova cordata di Giovanni Consorte) l’Al­bertone da San Michele Extra - Verona - sta sba­gliando poco o niente. Salvezza a un passo, 39 punti e senza la penalizzazione (-3) la stessa classifica della Juventus.


    C’è da correre fin sotto la Curva Bulgarelli. An­che se le sue esultanze in passato sono state bollate come “eccessive e scomposte”.

    «Io per la mia squadra esulterò sempre come mi detta il cuore, perché il calcio è pathos. Quando Mourinho con l’Inter ha battuto il Sie­na è andato a gioire fin sotto la Curva, non ho sentito parlare di eccessi. Idem per Leonardo, a Monaco martedì sera dopo il gol di Pandev si è tuffato in campo. Se lo fanno quelli che pas­sano per i più intelligenti, allora scusate, mi sen­to sdoganato».

    Ha citato i due allenatori stranieri che qui da noi ormai considerano i nuovi “profeti” del pallone.

    «Noi soffriamo di esterofilia: se uno fa l’allena­tore e parla anche le lingue passa per Leonar­do da Vinci. In Grecia dove ho allenato il Pa­nathinaikos anche il ragazzo che portava le bor­se della squadra parlava sei-sette lingue stra­niere, ma fa parte della loro cultura e nessuno lo considerava un genio».

    Eppure il calcio si nutre di “fenomeni” in cam­po e di “geni” della panchina.

    «I fenomeni in campo, quei pochi veri, passi­no, sono i protagonisti assoluti. Tra i geni pre­sunti della panchina esiste la tendenza, a volte pesante, di ricordare sempre quanto si è vinto in carriera. Un tecnico può essere geniale quan­to vuole, ma se non ha una società attrezzata alle spalle e soprattutto un gruppo di giocato­ri bravi e intelligenti che lo seguono, è difficile che possa diventare un grande allena­tore ».

    Lei e il suo corre­gionale Guidolin non entrate nel novero dei “grandi allenatori” solo per­ché non avete vinto scudetti?

    «Se dico che sono stato l’ultimo alle­natore italiano a vincere una Coppa Uefa con il Parma (nel ’99), divento anch’io uno di quel­li di tendenza. E allora mi piace di più ricorda­re i due anni di B al Chievo, una favola unica e che continua, ma che è partita da quelle che nel calcio si giudicano semplici salvezze».

    Vuol dire che la storia del calcio la fanno solo i vincenti?

    «Non mi sono mai sentito un perdente, ma a volte ho imparato molto di più dalle sconfitte che da un grande successo. Ci lamentiamo che non ci sono gli esempi e invece non si vuole ve­derli. A Siena l’anno scorso, all’ultima partita di campionato, l’Inter ci ha battuti a fatica. Era­vamo già retrocessi, ma abbiamo onorato il campionato fino all’ultimo, la gente ha capi­to e ci ha applauditi. Ma quell’immagine è sfumata via subito. Così come già si sono di­menticati di quello che ha fatto il Bologna nei mesi scorsi, quando i giocatori erano senza sti­pendio e senza società».

    Come avete fatto a non sprofondare?

    «Perché è nelle difficoltà che si comprende dav­vero che cos’è la vita. E nei momenti peggiori viene fuori l’uomo e il cristiano vero. Posso as­sicurare che quello che predicava Maria Tere­sa di Calcutta, “La felicità più grande? Essere u­tili agli altri”, nello spogliatoio del Bologna l’han­no messo in pratica tutti, dai giocatori ai ma­gazzinieri ».

    Un’immagine molto umana dei calciatori, di­pinti spesso come professionisti pieni di vizi e privilegi.

    «Sbaglia chi li considera dei normali dipendenti. Non esiste il calciatore impiegato e tanto me­no quello operaio. Alcuni di loro diventano mol­to ricchi è vero, ma non è che i soldi che pren­dono li hanno ottenuti puntando la pistola al­la tempia ai presidenti...».

    A quale categoria va ascritto allora il calciato­re di Serie A?

    «A quella degli artisti e l’allenatore deve avere la capacità di calarsi nei panni del buon regi­sta. Lo stadio è un grande teatro dove ogni do­menica cambiano gli attori e si cerca sempre di recitare qualcosa di diverso. Quello che offria­mo alla gente è uno sport che ha la giusta pre­tesa di essere prima di tutto uno spettacolo».

    Teorie eccentriche di chi nell’ambiente è con­siderato un naïf.

    «Mi hanno dato del naïf perché vesto un po’ strano. Preferisco il maglione, come Sergio Mar­chionne che è uno che stimo perché ha la mia stessa filosofia aziendalista. Le cose si cambia­no con le idee e il lavoro, mica con le giacche e le cravatte. A 56 anni sono sempre più convin­to che è il monaco che fa l’abito e non vicever­sa ».

    Lezione che Di Vaio e compagni si capisce che anche in campo hanno ben presente. Ma a Cas­sano riuscirebbe ad insegnarla?

    «Cassano è un ragazzo divertente, ogni volta che ci incontriamo mi fa battute simpatiche. Però se vuole diventare un grande campione deve allenarsi al rispetto, specie quando ci si rapporta con un presidente (Garrone ndr) che è prima di tutto un signore di 75 anni».

    Il complimento più bello che ha ricevuto in questi vent’anni da mister?

    «Me lo ha fatto Lilian Thuram che ha avuto al­lenatori come Capello, Ancelotti e Van Gaal, ma un giorno ha detto che io sono stato “il suo mae­stro”. Il riconoscimento di un giocatore e di un uomo libero come Lilian per me vale più di u­no scudetto. Ragazzi come Thuram e Eto’o che lottano contro il razzismo e aiutano concreta­mente l’Africa affamata, sono un patrimonio del calcio».

    Eto’o oltre a ricordarci che i soldi raccolti dal­le onlus per il suo Camerun spesso non arri­vano, dice che il nostro è un “Paese strano”.

    «Io quando sto all’estero dopo un po’ non ve­do l’ora di tornare a casa, a Verona e nella mia Italia. Saremo anche strani, ma questa è la no­stra terra e solo amandola tanto, non solo il giorno del 150° dell’Unità, possiamo sperare di migliorarla».


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