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  • Nell'anno in cui i Moggi tornano al lavoro...

    Nell'anno in cui i Moggi tornano al lavoro...

     

     

    pubblicata da Giuseppe Sansonna il giorno sabato 1 gennaio 2011 alle ore 22.07

     

    Faccia tonda, sorriso largo e occhioni celesti, Igor Kolyvanov affiora dal tunnel dello Zaccheria come un deja vu. Quindici anni dopo l’addio al Foggia, sembra il ragazzo di allora. Un Jon Voight dell’est, appena un po’ imbolsito. Viene subissato da un’ovazione rovente, sufficiente a sbrinargli un cuore congelato dall’inverno moscovita. E’ tornato dalla Russia per i novant’anni del Foggia, celebrati con un rendez vous di vecchie glorie rossonere. Nell’intervallo del match con la Cavese è atteso dall’abbraccio del Boemo, a centrocampo. Uno Zeman bifronte, per l’occasione.  L’uomo del passato aureo, detentore del record di panchine della storia foggiana. Nel presente, il Clint Eastwood indispensabile per evadere dall’Alcatraz della serie C. Il ceco guarda il russo, le quattro pupille  si bagnano e svaniscono vent’anni, di botto. Era il 1991.  Gli Scorpions cantano  Wind of Change, Gorbaciov si congeda dalla Storia, passando una vacanza da incubo nella sua dacia sul Mar Nero. L’Urss va in dissolvenza. Il nuovo che avanza ha gli occhi piccoli e il fegato zuppo di vodka di Boris Eltsin. Il Foggia, dal canto suo, torna in serie A. Urgono campioni stranieri. Zeman ha adocchiato due ventenni russi, campioni d’Europa under 21. Si chiamano Igor e vengono da Mosca.  Shalimov e Kolyvanov, centrocampista e attaccante. Il patron Casillo plana su Mosca, a bordo del suo aereo personale. In quegli anni danza disinvolto sui resti della cortina di ferro. Confortato da Aristotele, illustra la sua posizione nello scacchiere planetario: ”Ero il più grande esportatore di grano dall’America alla Russia. L’America è il granaio del mondo. Ergo, io ero il più grande esportatore al mondo”. Esaudisce i desideri zemaniani.  Kolyvanov ha il sorriso solare  da manifesto di propaganda, da fattore in tenuta da kolchoz, falce in pugno e sorriso d’ordinanza. Shalimov, invece,  è un cuore di tenebra. Pallido e fatale come un vampiro, chioma tentacolare intrisa di gel, fronte ampia, da Ivan il Terribile. Per lui lo Spartak chiede un miliardo e quattrocento milioni. Casillo ripristina il fascino arcaico del baratto, spedendo  a Mosca un camion di grano.  Per Kolyvanov  la Dinamo Mosca respinge le profferte di cerali. Casillo ripiega su di uno stock di automobili, motorizzando una dirigenza entusiasta.  Arrivati a Foggia i due assaporano a fondo il gusto della libertà: persi negli ipermercati, si ingozzano di pasta, cime di rape, broccoli, piselli e cioccolata. Aspirano sigarette in quantità, lontani dagli sguardi gelidi della federazione sovietica. Casillo regala una Dedra cadauno. Shalimov, derubato e appiedato, ripiegherà presto su una Panda. Kolyvanov, pazzo di gioia, usa la sua per scorrazzare sui marciapiedi cittadini. Tra l’incredulità dei foggiani, indecisi tra l’euforia per il nuovo idolo e la smania di linciaggio. “Guida come se fosse in piena tundra” sogghigna Shalimov, esilarato. Incassano ventisei milioni al mese, stornandone una grossa fetta per la federazione russa. Kolyvanov se la passava bene anche a Mosca. Sua moglie si trastullava nei Berioska, pasteggiando a caviale pagato in dollari. Il passato di Shalimov si snoda invece tra  genitori operai e un curriculum scolastico abbreviato dal precoce ingaggio nella Lokomotiv. Talento euclideo, da Falcao della steppa. Zeman lo incorona subito titolare, sedotto dalla sua visione di gioco da veggente e dai suoi bolidi angolati. Eppure, la sindrome di Ninotchka è in agguato. Nauseato da ripetute e gradoni, cederà presto alle lusinghe della dolce vita romana. Pendolare nottambulo dell’autostrada Foggia-Roma,  scandaglierà Via Veneto con la meticolosità di Fellini.  Acquistato dall’Inter a peso d’oro, completerà la sua occidentalizzazione nelle dark room di Milano. Ritrovandosi un ex, a venticinque anni. Per Kolyvanov, tutt’altro destino. Zeman lo osserva perplesso, fin dalle prime battute. Quel russo refrattario al suo verbo è un’anomalia vivente. Quando prende palla nessuno sa cosa farà.  Non lo sanno i compagni. Non lo sanno gli avversari. Non lo sa lo stesso Kolyvanov, agito dal demone anarchico della propria irruenza. Davanti ai suoi assoli sterili, Zeman digrigna i denti, a bocca serrata. La domenica, in campo, scende sempre lo stesso, irrinunciabile tridente: Baiano, Signori, Rambaudi. A Kolyvanov rimangono le  briciole, ma non perde il sorriso. A fine campionato  Il Foggia avvia la diaspora. Vende tutti i gioielli, fatturando più di cinquanta miliardi. Il solipsismo di Kolyvanov non ha mercato. Il russo rimane ai margini del ritiro zemaniano, in attesa di svendita. Un giorno, a fine allenamento,  sfoga la sua frustrazione bombardando Mancini di tiri. Dopo il trentesimo gol infilato all’incrocio dei pali, il cuore di Zeman registra un inedito sussulto. Forse quel ragazzo merita un'altra chance. Lo eleggerà titolare intermittente delle nuova Zemanlandia, trasformandolo nell’idolo dei tifosi. Apre molti spazi e segna pochi gol, ma memorabili. Come quello al Milan degli Invincibili, nell’ottobre del 1993. Centrato da un cross teso in piena area milanista, Kolyvanov  replicò con uno stop a seguire, estemporaneo quanto surreale. Sufficiente a offuscare i radar di Baresi, Tassotti, Maldini e Costacurta, androidi di una difesa bionica. La palla rimbalzava morbida, invitando il russo a spianare il kalashnikov.  Nel suo mirino Sebastiano Rossi, immune al gol da seicentonovantuno minuti, lanciato verso il record di imbattibilità di Reginato. Igor lo strappò agli annuari del calcio, con un siluro potente e angolato. Lo Zaccheria, all’unisono, salutò l’evento con un peana improvvisato. “Cucù, cucù, il record non c’è più, l’ha preso Kolyvanov e non te lo rida più”.  Il portiere milanista, due metri di protervia, imbarazzante persino per Berlusconi e Galliani,  reagì con sportività. Lanciò nel cuore folto della curva foggiana un fumogeno piovuto in campo. “Temevo che fosse un pericoloso petardo” spiegò nel dopopartita.  Ricordi rievocati a cena, nella festa natalizia al lussuoso Nicotel di Manfedonia. “Quando sei arrivato a Foggia non volevi correre. Poi hai capito. Oggi sei bravo allenatore” riassume Zeman. Kolyvanov ha vinto il campionato Europeo nel 2006, con l’under 17 russa. Oggi quei ragazzi sono l’ossatura della sua Under 21, ammaestrata a un rigido 4-3-3. “Ci devi mandare uno come te” supplica imperioso Casillo. “Se andate in B, sarà più facile” replica il russo,  mentre branchi di spigole sfilettate nuotano sui tavoli, sospinte da ettolitri di Falanghina.  A fine cena Insigne, autore della sontuosa doppietta che ha steso la Cavese, flauta nel microfono classici del repertorio partenopeo, ostentando un timbro da neomelodico. I compagni fanno il controcanto. “Con voi non si può più uscire” sussurra Zeman, con le lacrime agli occhi per le risate. Dopo Natale ha ripreso le vesti da benevolo torturatore, sedendosi sulla sommità dello Zaccheria e dirigendo muto l’ascesa dei gradoni, come un sacerdote maya sulla cima di un tempio.  Piombati in pieno richiamo di preparazione anche i nuovi arrivati Perpetuini e Verruschi. Ann

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