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  • Operazione nostalgia, l'intervista al Collettivo Panenka: 'Noi come il Cholo'

    Operazione nostalgia, l'intervista al Collettivo Panenka: 'Noi come il Cholo'

    • Pippo Russo
    Un’avventura partita cinque anni fa, con tanta passione e senza chiedersi quanto potesse durare. E adesso, voltandosi indietro a guardare le cose fatte e quelle che ci si prepara a realizzare, è giusto concedersi un attimo di stupore. Quelli del Collettivo Panenka, fondatori della più raffinata e stimata rivista sul calcio in circolazione, quasi non hanno il tempo di riflettere su ciò che hanno fatto fin qui. Nella redazione di Barcellona il fervore è continuo, e improvvisi brainstorming si accendono per valutare un tema da programmare per i prossimi fascicoli mensili, o per studiare le strategie di marketing rese possibili dal sito appena rinnovato. La rivista, che prende il nome dal calciatore dell’allora nazionale cecoslovacca cui si deve la prima esecuzione di un rigore “a cucchiaio” di cui si conservi memoria (era il 1976, c’era in ballo il titolo di campioni d’Europa nella finale contro la Germania Ovest campione del mondo in carica, e in porta c’era un mostro sacro come Sepp Maier), è una realtà consolidata che vanta una serie d’imitazioni più o meno riuscite. Ma se si prova a chiedere loro se si sentano un punto di riferimento, si guardano straniti e poi rispondono: “Ma chi, noi?”.

    Il giorno in cui passo a trovarli in redazione trovo un quintetto ben affiatato: Aitor Lagunas, Alex Lopez, Carlos Martin, Roger Xuriach e Marcel Beltran. Quest’ultimo è il più giovane in termini di militanza nella cooperativa. “Lui è un prodotto della cantera”, ironizzano.

    D. Come è nata la vostra avventura? Qual è stata l’idea di partenza?

    Aitor Lagunas – Tutto è cominciato a metà del 2011. Ero reduce da un’esperienza di lavoro come corrispondente da Berlino, e in precedenza avevo lavorato per una prestigiosa rivista calcistica spagnola, Don Balon, di cui adesso esiste soltanto un sito web. Assieme a un gruppo di persone abbiamo condiviso la sensazione che mancasse una rivista che parlasse di calcio in un certo modo. Collegandolo con la cultura globale del XXI secolo, con la politica, con l’economia. Abbiamo lanciato il primo numero della rivista in pdf, perché non avevano ancora chiaro se questo tipo di rivista potesse avere un mercato in Spagna. E quando abbiamo visto che il primo numero è stato ben accolto, a partire da settembre 2011 abbiamo avviato le pubblicazioni in versione cartacea e da allora abbiamo prodotto 51 numeri. Il piccolo gruppo originario, di cui facevamo parte io e Roger, è cresciuto. È arrivato Alex che si è occupato soprattutto della parte economica e imprenditoriale. Successivamente è arrivato Carlos, che ha preso il ruolo di community manager. E man mano gli altri.

    D. Qual è l’idea di calcio che condividete in Panenka?

    Alex Lopez – Volevamo parlare innanzitutto di un calcio non condizionato dai colori e dalle bandiere, e perciò fare una cosa in controtendenza rispetto al modello di giornalismo sportivo che impera in Spagna. Noi abbiamo voluto fin dall’inizio un altro approccio al calcio. E abbiamo costruito una rivista dove si potesse parlare di qualsiasi club e di qualsiasi calciatore, raccontando storie senza lasciarci prendere da obblighi di appartenenza. Questa scelta ha pagato, perché chi legge Panenka sa che leggerà delle storie anziché trovare articoli sui soliti temi e i soliti personaggi di cui gli altri giornali parlano quotidianamente. Raccontiamo di grandi e piccoli club, così come di calciatori vincenti e di calciatori perdenti.

    Aitor Lagunas – Qui in Spagna abbiamo quattro quotidiani sportivi nazionali, più altri quotidiani sportivi locali. E ciascuno si segnala per la vicinanza a un club. Quelli nazionali si dividono fra Real Madrid e Barcellona. E molti lettori sono stanchi di vedere come spesso il giornalista si trasformi in uomo di parte, o addirittura in ultras. Rispetto a questo stato delle cose abbiamo voluto distinguerci, basandoci su un’idea di calcio che va oltre i 90 minuti. Il calcio è identità, è passione politica, è rappresentazione di movimenti sociali. Tutto ciò è per noi interessante quanto quello che accade durante i 90 minuti. Abbiamo anche voluto portare un punto di vista un po’ “retrò”, giusto in un momento storico nel quale il calcio è fatto oggetto di una commercializzazione spinta. L’idea di calcio che piace a noi, che siamo in gran parte trentenni. Cioè collocati in una fascia anagrafica cui appartengono anche molti fra i nostri lettori. Proponiamo storie che provengono soprattutto dal periodo fra gli anni Settanta e Novanta. Dopo quel periodo, secondo noi, il calcio è cambiato: la Premier League, la Champions League, le pay tv. Tutto questo ha creato un certo disincanto, e per i lettori disincantati Panenka è diventato un punto di riferimento.

    D. Avete descritto una situazione paradossale. Parlate della nostalgia per il calcio fra gli anni Settanta e l’inizio dei Novanta, e al tempo stesso dite che una fascia importante dei vostri lettori è quella dei trentenni. Ma questa fascia anagrafica non ha vissuto quel calcio. State dunque dicendo che i trentenni di oggi sono nostalgici di un calcio che non hanno vissuto?

    Carlos Martin – Proprio così, e è una cosa meno paradossale di quanto sembri. Il calcio è innanzitutto un fatto culturale. I tifosi e gli appassionati di oggi vivono un certo tipo di calcio, molto commerciale, che li tratta come clienti. Ma queste stesse persone sanno pure che il calcio è un’altra cosa. La dimensione affettiva e sentimentale è centrale. Noi raccontiamo il calcio privilegiando questa dimensione, che trova il favore dei lettori appartenenti a qualsiasi fascia anagrafica.

    Roger Xuriach – Questa è una cosa molto interessante. Stiamo vivendo il tempo in cui gli effetti della globalizzazione e della commercializzazione si dispiegano al massimo grado sul calcio, ma è anche il tempo in cui la gengente del calcio chiede un protagonismo e una partecipazione più elevati. E questo succede non soltanto nel calcio, ma a tutti i livelli delle nostre società sono attraversati da questa esigenza. E in questo contesto che cambia, dentro e fuori il calcio, noi abbiamo provato a proporre un giornale diverso. Per esempio, abbiamo insistito molto sull’uso dei disegni per corredare il nostro giornale, così come con le foto e le infografie. Questo ha funzionato molto bene. E siamo sorpresi di vedere come tanti studenti universitari, soprattutto quelli che studiano comunicazione, siano così interessati alla nostra rivista. Così come lo sono tanti giornalisti stranieri, che vengono a conoscerci.

    D. Avete fatto riferimento al modo dominante di raccontare il calcio in Spagna, da cui prendete le distanze. In che modo, invece, bisognerebbe raccontarlo?

    Marcel Beltran – Una premessa: la nostra è una rivista mensile, e dunque nel parlare di calcio non abbiamo l’assillo dell’attualità come invece succede ai media che devono raccontarlo giorno per giorno. Piuttosto, bisognerebbe chiedersi se davvero il modello di giornalismo tipico di Panenka non sia adottabile dalla stampa che copre l’attualità. Io sono uno di quelli che non hanno vissuto il calcio degli anni Settanta e Ottanta, perché non ero ancora nato. Però ne ho avuto nostalgia perché quel calcio mi è stato raccontato dai miei familiari, o da amici più anziani. Credo che questa esigenza sia molti diffusa presso il pubblico.

    Alex Lopez – Non credo ci sia una maniera corretta per parlare di calcio. Né ci proviamo noi a indicarne una. Possono esistere venti modi diversi di parlare di calcio, e tutti ugualmente legittimi. Anche noi ne sperimentiamo più di uno. Per esempio, nel sito web della rivista possiamo permetterci di andare un po’ più sull’attualità.

    D. Siete consapevoli che Panenka è diventato un punto di riferimento a livello internazionale?

    Rispondono “no”, uno dopo l’altro.
    Carlos Martin – Di sicuro non siamo diventati ricchi.

    D. Ma se doveste individuare un segreto per spiegare la longevità di Panenka?

    Aitor Lagunas – Il segreto è lo stesso del Cholo Simeone: il “partido-partido” [partita dopo partita, passo dopo passo, ndr]. Non ci siamo mai dati obiettivi di lunga durata, abbiamo lavorato fin dall’inizio sugli obiettivi immediati. E poco a poco ci siamo adattati alla crescita della rivista e alle esigenze dei lettori. Siamo rimasti una rivista libera, e questo è stato un grande successo. Così come lo è stato arrivare a cinque anni di attività. Quando si cominciò, non ci si sarebbe aspettati di arrivare fin qui. Di sicuro non ci saremmo immaginati che venisse in redazione uno scrittore italiano, proveniente da Agrigento, per dirci che siamo un punto di riferimento a livello internazionale.

    @pippoevai

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