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  • Quelle urla del presidente che non riesco a scordare

    Quelle urla del presidente che non riesco a scordare

    • Bernardo Brovarone
    Quella mattina ero in sede al Rayo Vallecano, mi aveva chiamato la segretaria del Direttore Uceda, se non ricordo male certa Marta, per firmare alcuni documenti che mi riguardavano. Era stupendo entrare al Rayo, pareva d’essere alle Due Strade a Firenze, campo storico della gloriosa Rondinella Marzocco, di cui anni fa sono stato pure Presidente Onorario. Solita attesa sul divanetto nel corridoio, solito garbo e cortesia di tutti i dipendenti della società di Vallecas, zona gitana della capitale spagnola, e soliti berci che arrivavano dallo studio del direttore, El Jefe. Il suo vocione, la sua energia, il suo carisma, erano musica per le orecchie dei presenti e pure emicranie volanti e passeggere per alcuni, oltre che coglioni girati per tanti altri.
    Quel giorno nel suo studio c’era un noto procuratore spagnolo, anch’egli non proprio un angioletto, il confronto era aspro e lo si sentiva chiaramente, ma contro Felix era dura per tutti, e quando uscirono dall’ufficio il buon Alejandro aveva un volto che parlava da solo, fra il verde mela e il bianchiccio trasparente, sudato e incazzato come una iena, passo svelto e via andare. Il direttore mi saluto’, disse due parole volanti a un collaboratore e si rinchiuse di nuovi nella sua tana, quel piccolo studio pieno di videocassette, fogli e fogliacci sparsi ovunque, almanacchi dei giocatori, gagliardetti e maglie del Rayo, cornici con foto storiche del club, uno spasso viverlo di persona per un amante del pallone come me. Da ogni poro possibile immaginario fuori usciva odore di erba bagnata, di terra fradicia sotto i tacchetti, di maglie zuppe, di rumore di palloni calciati, di tacchetti di scarpe che rumoreggiano lungo il corridoio, erano pensieri obbligatori, sensazioni nude e crude, anche perché il campo era li’, gli uffici sono dentro lo stadio, i giocatori passano e ripassano in continuazione, e’ un via vai continuo, e’ quella che io chiamavo sempre la Famiglia de Vallecas.
    Terminato di sistemare le mie cose con la segretaria decido di andare a salutare il direttore e vado a bussare alla sua porta:”Adelante!” con quel vocione . Mi siedo davanti a lui e mi racconta che è disperato perché aveva chiuso con un portiere ma l’operazione alla fine è saltata e non sa dove mettere le mani. “Bernardo no tienes nada, que se yo en la Roma tu amigo, mira se encuentras alguna possibilidad, estoy hodido”. C’era un portiere in Italia che veniva dal San Lorenzo e che a me era sempre piaciuto, giocava a Brescia, si chiamava Sebastian Saja, per me poteva fare il suo caso, ma non gli dissi nulla, uscii dalla sede e chiamai Gianluca Nani al Brescia, un amico, oltre che un dirigente con i fiocchi. C’erano i margini per poterla fare la cosa ma non era proprio un’operazione da nulla.
    La mattina seguente tornai al Rayo, prendemmo un caffè con il direttore e gli proposi la cosa, il Brescia mi aveva lasciato carta bianca, c’era naturalmente da parlare con il rappresentante del giocatore, certo Fernando Cosentino, ma il ragazzo fu informato della possibilità pure da Nani e portai avanti la questione. Discutemmo delle condizioni, mi accorsi subito che c’era interesse, la soluzione piaceva, un piccolo sforzo in più erano disposti a farlo, decidemmo di andare avanti. Presi un volo per Milano la mattina seguente e andai al Brescia a presentare la nostra proposta. Al ragazzo piaceva molto l’idea di andare a giocare in Liga, il Brescia non si sarebbe strappato certo i capelli per lui, al Rayo avrei risolto un problema non da poco, insomma decisi di tornare a Madrid e con la concessione del Brescia parlare con il rappresentante del ragazzo e provare a chiudere la trattativa.
    Ci vedemmo in sede alcuni giorni dopo, una mattinata di caldo africano, arrivai in taxi bello fresco e pimpante, pronto per definire il tutto. Appena entro in sede mi trovo davanti il procuratore bianchiccio e incazzato del primo giorno, era tornato alla carica, non aveva chiuso con l’altra squadra ed era tornato con la coda fra le gambe dal direttore per vedere di riaprire la trattativa. Furono momenti di grande tensione, Fernando veniva dall’Argentina, ero stato io a muovere tutto questo casino e non potevo permettermi di rendermi poco credibile, avevo la fiducia totale del direttore e l’autorizzazione dal Brescia, ero in una botte di ferro, ma il calcio di botti di ferro ne conosce poche, di botte sul muso invece molte di più, e la tensione sali’. Ci chiudemmo in studio tutti e tre, parlammo a lungo, spiegai a Cosentino insieme a Felix tutti i passaggi e le condizioni dell’affare, arrivammo ad un accordo di massima e decidemmo di andare a pranzo per poi definire tutto nel pomeriggio in sede. A pranzo andammo soltanto io e l’agente, il direttore resto’ in sede a preparare i documenti, e devo essere sincero questa cosa mi fece stare con l’ansia fino al nostro ritorno. Non ero tranquillo, mi sentivo a rischio, e’ un mondo di bugiardi e traditori, io ero novizio e pure inesperto per certi aspetti, ma quel pomeriggio si chiuse l’operazione senza complicazioni e Sebastian alle sei era un nuovo giocatore del Rayo Vallecano.
    Ragazzo dolcissimo e professionale, fu accolto alla grande e ne uscì alla fine una buonissima operazione per tutti. Ricordo ancora la mattina gelida e nebbiosa, arrivai a Malpensa da Madrid e con una macchina a noleggio raggiunsi la ditta del Presidente Gino Corioni, dove mi aspettava la figlia per regolare la parte legata alle mie spettanze. Eravamo tutti gratificati e soddisfatti, ognuno aveva ottenuto ciò che desiderava, non fu semplice, dovemmo superare diverse difficolta’ ma arrivammo al traguardo. Il bianchiccio e sudato agente spagnolo lo incontrai di nuovo in un ristorante a Madrid, era con un mio amico dirigente del Zaragoza, Pedro Herrera, un vero fenomeno, grandissimo lavoratore e competenze di spessore altissimo. Era pure un gentiluomo, anche se in fase di trattativa uni dei più cazzuti conosciuti in vita mia. Aveva un direttore generale arguto e affarista, molto più avanti con l’età di lui, lo vincolava troppo, non lo lasciava essere decisionista e intraprendente, e quel giorno che bussai alla loro porta incaricato dalla Roma per sondare un calciatore che voleva Fabio Capello venne fuori un mezzo polverone. Pedro mi guardava come a lasciarmi intendere:”Bernardo non pensavo tu avessi queste unghie così affilate…”. Ecco ora lo sai. Non lo sento da tempo, mi manchi da morire Pedrito e sappilo, un giorno racconterò la nostra avventura, quel giorno dentro quello stadio che sembrava cadesse a pezzi da un momento all’altro. Sono cresciuto anche grazie a te!

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