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  • Roberto Baggio:| 'Allenare l'Italia? Non si sa mai'

    Roberto Baggio:| 'Allenare l'Italia? Non si sa mai'

    Baggio ha ancora molto da dire, e non solo sul calcio. A GQ, che gli dedica la copertina - in edicola dal 7 gennaio - “Codino” apre le porte di casa sua e si racconta, attraverso ricordi e nuovi obbiettivi.

    Ora che è stato chiamato dalla Federcalcio a dirigere il settore tecnico Roby Baggio non ha alcuna intenzione di fare da specchietto per le allodole: «Il 1° ottobre abbiamo depositato presso un notaio 127 pagine di un progetto per la ristrutturazione del calcio italiano dal punto di vista tecnico, dalla scuola allenatori alla metodologia che serve per formare i giovani. Il 15 dicembre abbiamo fatto la prima riunione del comitato tecnico. Ci siamo dati tutto il 2011 per ottenere qualche risultato. Se dovessi sintetizzare il progetto in una formula, direi: “Recupero del territorio”. Attraverso una presenza più assidua, anche da parte mia, nelle varie realtà, ma anche grazie alla tecnologia, che può aiutare molto. Gli obiettivi sono molteplici, ma anche questi si possono sintetizzare in uno solo: dare spazio al talento, o, meglio, trasformare il talento in valore. Oggi il calcio italiano fatica a gestire i propri talenti, come dimostrano i casi di Cassano e Balotelli: io non voglio giudicarli, ma dico solo che il talento non basta, dobbiamo trasmettere entusiasmo e consapevolezza, dobbiamo insegnare ai giovani a emozionarsi e anche a chiedere scusa».  Con chi ti piacerebbe lavorare al futuro del calcio italiano, chi sono i tuoi compagni di strada ideali? «Per non fare torto a nessuno, faccio tre nomi non italiani, che sono tra le persone che stimo di più nel mondo del calcio. Leonardo, con cui ho giocato nel Milan, intelligenza vivissima, gioia di vivere e autentico cittadino del mondo; Pep Guardiola, con me al Brescia, grande calciatore, grande allenatore e soprattutto persona eccezionale; Javier Zanetti, compagno di squadra nell’Inter, amico leale e fiero, tenace e determinato». Tra il 1990 e il 1998 hai disputato tre Coppe del mondo, segnando nove gol – unico italiano nella storia – in tre Mondiali di fila. Per tre volte l’Italia è uscita ai rigori, in semifinale, in finale, ai quarti di finale. Otto anni dopo, un’Italia obiettivamente inferiore vince la Coppa ai rigori. Se la vita è strana, il calcio non è da meno: «Be’, è normale che una vittoria ai Mondiali come quella del 2006 ti faccia ripensare a quello che hai vissuto, a quello che hai dato, a quello che hai fatto. In famiglia, con gli amici, l’ho commentato un sacco di volte: è difficile trovare una logica in certi avvenimenti. Io penso più che altro alle persone che ottengono i risultati: una vittoria rimane scritta, fa storia, ma in loro che cosa lascia? Sarà un motivo per essere ancora vittoriosi in futuro, oppure per essere perdenti? Le vittorie e le sconfitte spesso non si capiscono subito, bisogna saper attendere. Il piacere sta nella costruzione costante del traguardo prossimo e nel chiedersi: con quale intensità, con quale rispetto mi metto al lavoro?».  E oggi che l’obiettivo calcistico non c’è più, qual è il sogno? Da bambino, quando giocavo a pallone per strada, avevo un sogno: scendere in campo nella finale di Coppa del mondo, affrontare e battere il Brasile. Il Brasile era la squadra più tecnica, la più bella da vedere, la più, la più... tutto. È un sogno che ho coltivato sempre, fino a quando ho smesso di giocare. Nonostante abbia perso il mondiale nel ’94 col Brasile ai rigori, nella maniera peggiore, non ho mai abbandonato quel sogno. Allenare l’Italia in una finale col Brasile? Roberto Baggio sorride: «Eh, può essere. Non si sa mai… Non abbiamo detto che la vita è strana, e non c’è logica?».

    E sempre a GQ Michel Platini rivela quel che stava dietro a una sua famosa dichiarazione su Baggio: «Roby è un grandissimo nove e mezzo – dichiarò Platini – nel senso che non è un 10 puro, non è un regista e non è neppure un 9, cioè un attaccante autentico». Escluso dal confronto a prescindere. In passato. E adesso? «Adesso è tempo di spiegare». E mentre lo dice il signor Presidente fa qualcosa di molto simile a un sorriso di sfida, in perfetto stile francese: «In effetti avevo detto che era un nove e mezzo, ma i bravi e simpatici giornalisti italiani hanno comparato quel giudizio a un voto in pagella. Ci hanno marciato un po’ su. Invece io ho sempre e solo parlato pensando alla sua posizione in campo. Era uno che giocava dietro le punte, tutto qui, questo volevo dire. Di sicuro non volevo dare voti».

     

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