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  • Serie A: ecco come riportare i campioni

    Serie A: ecco come riportare i campioni

    • Marco Bucciantini

    Davanti al disperato ultimo giorno di un disperatissimo mercato, lunedì scorso, e confrontando le abitudini recenti degli altri campionati rispetto alla Serie A, m’incoraggiavo con la più antica delle dottrine storiche: tutto è ciclico. E annoiato dall’inutile (perché improduttivo) esercizio degli alibi, per cui sperare in meglio diventa un azzardo e c’è sempre (o finalmente, dopo tante baldorie) una ragione solida e perfino ovvia che ostacola ogni critica, ho cercato dati speranzosi, e provato a metterli insieme, per capire quando “a da passà ‘a nuttata” del nostro calcio (ma gli appunti mi stavano saltando per aria quando Lotito ha simboleggiato i tempi, con quella foto indelebile in mezzo al campo). Anche le rimostranze di molti tifosi verso la severità di quell’articolo mi hanno spronato a cercare: la rete permette un confronto vero, genuino, nutriente.

    Sono partito da lontanissimo: la necessità di conoscere il passato per poter comprendere il presente e prevedere e migliorare il futuro, in fondo, era la teoria di Tucidide. Si occupava di guerra laggiù in Grecia, qualche secolo prima di Cristo, e rintracciava sempiterne pulsioni umane, in cima a tutte il desiderio inesauribile di accrescimento, che non può essere né limitato né contrastato se non da una forza uguale e contraria: per questo, appunto, la guerra. Ma c’interessa la ciclicità delle cose, lo studio del passato per capire cosa sta accadendo, la possibilità dunque concreta di incidere sul futuro, e il concetto di accrescimento: la tendenza ad aumentare la propria potenza, a espandersi, ad arricchirsi (perché i soldi sono la misura universalmente riconosciuta di questa “guerra”).

    La Serie A, allora. Deve ritrovare la propria tendenza all’accrescimento. Così, con un imperdonabile salto temporale e filosofico sono dovuto atterrare. Questi i dati che escludono qualsiasi ineluttabilità alla miseria delle società che compongono la Serie A: 18 anni fa il nostro campionato aveva un fatturato di circa un miliardo di euro, la Premier League di 1 miliardo e 200 milioni e a distanza seguivano la Liga (722 milioni), la Bundesliga (681) e la Ligue1 (607): questi sono i cinque tornei di riferimento. E questi considera l’ultimo Annual Review of Football Finance 2014 della Deloitte, nell’ambito del periodico studio sui conti del calcio: il fatturato complessivo dei cinque principali campionati europei è cresciuto fino a 9,8 miliardi di euro (dati sul 2012-13, in aumento del 5% sull’annata precedente). La Premier si conferma davanti, dopo non c’è più l’Italia ma la Bundesliga. Lontano dalle due “potenze” la Liga, poi la Serie A e la Ligue1. Nel dettaglio, la Premier League fattura circa 3 miliardi di euro. La Bundesliga segue con 2.018 milioni di euro, la Liga spagnola 1.859 milioni, la Serie A  1.682 milioni, i francesi quasi 1.300 milioni con un tasso di crescita alto, drogato dai “volatili” soldi arabi e russi e dagli investimenti sugli stadi in vista dei prossimi Europei (e questi soldi “rimarranno” nel tempo).


    Vediamo dove si è dilatato il divario con gli inglesi, e poi cerchiamo le ragioni nell’unico modello proponibile, che è quello tedesco: così anche l’Italia potrà giovare del già detto andamento ciclico dei fatti economici. Passa il luogo comune che la Premier ci abbia distanziato grazie ai diritti televisivi o al mitico “merchandising” ma come tutte le frasi fatte serve solo a indurire la mente: il vero scarto con la Serie A è al botteghino perché se negli ultimi cinque anni dal settore commerciale la Premier ha raccolto quasi il doppio della Serie A, la differenza maggiore non è data dal  feticcio gadgettistico o dagli sponsor, né dalle tv, bensì dal popolarissimo e antico biglietto: le squadre inglesi hanno ottenuto incassi per 3,5 miliardi, quelle italiane meno di un miliardo. Nel complesso le entrate della Premier nell'ultimo quinquennio hanno oltrepassato i 12 miliardi, quelle della serie A hanno solo sfiorato i 7 miliardi. Merito degli investimenti “individuali” (delle singole squadre, per esempio sugli stadi: oltre 100 milioni di sterline per abbellimenti e comodità) e del “marchio” collettivo, la Premier League che fa anche politiche commerciali “unioniste”, come quando tutti si accordano per superare il contratto con il main sponsor Barclay (garantisce circa 50 milioni all'anno) per bandire un'asta, e ottenere più soldi.

    Quello che azzoppa il calcio inglese è il costo del lavoro, il rapporto fra il monte stipendi e il fatturato: è al 71%, così come in Serie A (in calo, dal 74%), ed essendo decisamente superiore il fatturato, ecco perché i calciatori forti vanno oltre la Manica. Ma sono rapporti squilibrati, insalubri, a lungo andare mortiferi che spolpano le casse, impedendo investimenti solidi (per altro, in Inghilterra già compiuti – gli stadi – e in Italia ancora no), e anche i francesi sono a rimorchio (66%, per via di quelle due squadre di proprietari esteri). La Liga si contiene, al 56% (Real e Barcellona compensano con entrate mostruose) ma il vero modello che s’impone è quello tedesco. La Bundesliga è il campionato col maggiore controllo dei costi, con un rapporto stipendi-fatturati stabile al 51%, e questo dato, letto in concordia con quello vede il fatturato della Bundesliga oltre i due miliardi di euro, segnando una crescita dell’8% rispetto all’anno precedente, indica come in Germania l’aumento di ricchezza viene investito in opere solide, che torneranno utili e che già portano soldi e titoli: i tedeschi campioni del mondo hanno stabilito anche un nuovo record aumentando i profitti operativi di 74 milioni di euro, il 39% in più rispetto alla stagione precedente, attestandosi a 264 milioni.

    L’equilibrio e la forza (conseguente) del calcio tedesco hanno ragioni politiche e manageriali, e solo in parte contingenti: dunque, imitabili. C’è alla base una coesione fra Bundesliga, Federcalcio e potere politico che ha messo in moto il virtuosismo con gli investimenti per i Mondiali del 2006: in Italia invece si rifiutano le Olimpiadi, per paura del futuro e perdendo un’occasione di afflusso di soldi irripetibile: ritrosia dovuta alle bruciature sulla pelle ancora vive dopo le nefandezze di Italia ’90.

    I nuovi stadi (due miliardi di investimento, allora, vincolati a obblighi di trasparenza di bilancio e la ricostruzione dei settori giovanili) e le politiche dei prezzi più basse hanno riempito gli spalti, con una media di 43 mila spettatori, il doppio della Serie A (assai più simile alla Bundesliga 2, la loro Serie B, che arriva a 17.500 spettatori), con incasso al botteghino superiore nonostante il numero inferiore di partite (18 squadre contro 20). Quelle leggi che impongono gli investimenti nei settori giovanili sono state anticipate dai 520 milioni della Federcalcio, per creare 366 scuole calcio, coordinate da 29 centri dislocati sul territorio. Ricevono i ragazzi selezionati dagli osservatori federali, tecnici sempre aggiornati per i quali la Federazione spende 20 milioni l'anno, e altri 10 ne spende per manutenere le strutture. La stessa cura è richiesta alle società, che devono iscrivere proprie squadre a ogni campionato giovanile, e stipendiare tecnici aggiornati, medici, psicologi, fisioterapisti, insegnanti, e mostrare campi perfetti, palestre e zone svago. Chi non presenta questi documenti non può iscriversi al campionato. Questo crea un’opportunità che tecnici e dirigenti capaci e coraggiosi trasformano in un circolo virtuoso: se la Serie A è il campionato con la più alta età media fra tutti quelli maggiori (27,1), la Bundesliga è il secondo più giovane, con 24,9, battuto solo dagli olandesi. Portare i giovani a giocare in prima squadra, senza mortificarli di tanta attesa o prestarli alle serie inferiori, è una precisa scelta culturale, con vantaggi economici e pratici ormai evidenti: il campionato italiano è ultimo in Europa (trentunesimo su 31) per l'impiego dei giocatori provenienti dal settore giovanile: appena il 7,8%. La percentuale tedesca è doppia, la sciovinista Francia supera il 20%. Guardando le rose non c'è un solo club italiano fra i 20 più giovani del continente, e quando la Serie A recupera in gioventù è solo per l'impiego dei ragazzi stranieri e non certo per il trapianto di giovani fatti in casa. Peccato, perché sui giovani s'investe anche da noi (60 milioni l'anno) ma poi viene trascurato il momento decisivo, il passaggio al mondo adulto. Anche queste sono economie che si disperdono, ricavi che – al dunque – mancano al nostro movimento. Eppure così facilmente recuperabili, con maggiore visione e cultura.

    Un altro aspetto da imitare, e che allaccerebbe una buona e limpida gestione all’aumento dell’entrate per le nostre società sotto quell’abusata e mai convintamente esplorata possibilità del merchandising è l’assetto proprietario dei club tedeschi (non obbligatorio ma incentivato): l’azionariato popolare. Dove si concretizza è previsto almeno il 50% più uno di azioni in mano ai tifosi. Così sono governati per esempio Bayern Monaco, Friburgo, Amburgo, Kaiserslauten, Mainz, Schalke 04, Stoccarda. Il Bayern ha 180 mila soci: è ovvio come questa scelta diffonda un senso di appartenenza, cultura, coesione d’intenti e controllo che saranno il vero motore del merchandising (nonché i primi appassionati “clienti”). Quando poi gli stessi tifosi-proprietari decidono di cedere quote azionarie (nel caso bavarese, l’8,33% è andato ad Adidas, Audi, Allianz: industrie forti del posto), vi è stata la garanzia dei tifosi sulla destinazione alla voce investimenti sulla squadra dei cospicui guadagni: i tre colossi sborsarono complessivamente circa 200 milioni di euro.

    Tutto questo (ma su tutto: l’onestà e la bravura e lungimiranza della classe dirigente tedesca) fa della Bundesliga un campionato economicamente equilibrato. I numeri, per chi crede che sia impossibile vincere e tenere i conti a posto:: il 27% dei ricavi arriva dagli sponsor, il 26% dai diritti televisivi, il 21% dai biglietti venduti, il 7% dal merchandising.... Le squadre sono forti, competitive, e 16 società su 18 in attivo: secondo il Report Bundesliga 2012, i club tedeschi s'indebitano per 40 euro ogni 100 incassati. In Italia è l’inverso: ne incassano 100 e ne impegnano 156. Così la Bundesliga può garantire all’economia tedesca 40mila posti di lavoro (110mila compreso l'indotto) e introiti fiscali per lo Stato per 719 milioni di euro l’anno. C’è da imparare, dunque. Oppure possiamo restare ad ammirare i gol degli altri.

    Per imparare bisogna conoscere il passato, e anche spogliarsi degli alibi, dicevamo all’inizio: come quello dei “poveri” diritti televisivi che non permetterebbero alle nostre squadre di competere nei tornei europei. L’audience televisiva italiana “tiene” e i proventi dei diritti si allineano agli altri, con qualche sorpresa. Se i “mostri” spagnoli Real e Barcellona fatturano oltre 180 milioni alle tv, su quasi 500 complessivi, uccidendo peraltro le altre società spagnole e un po’ loro stesse, con costi del lavoro che comprimono i ricavi a soli 6 milioni a testa (sono esempi impossibili e comunque da non seguire), i nostri due club migliori si fanno valere:  Juve e Milan attraggono rispettivamente 160 e 140 milioni di euro dalle tv. Un ricavo – conteggiò il Sole 24ore – che è ben più alto di Manchester United 118 o Bayern 107. Invero, si è visto, La differenza la fanno gli incassi dal botteghino e il “commerciale” e cioè sponsor e attrazione del marchio sul mercato (Juventus 68 milioni, Bayern 237, Manchester 177, Real 211: e in questo le capacità del management sono decisive). Sanno vendere marchio le società storiche di città “mondiali” e realtà note viepiù per il calcio, e già una volta parlammo di Manchester e Liverpool, in paragone con la Fiorentina, solo per tenere “fermo” il parametro degli abitanti, di quello che è indicato come il bacino d’utenza primario e per raccontare come certi marchi si possono affermare e non v’è nessuna ragione storica o economica “data” che lo impedisca. Certo, fa effetto sapere che il Real Madrid nella prima settimana dopo l’acquisto di Rodriguez ha incassato 15 milioni con le magliette del nuovo giocatore, mentre in Italia le bancarelle del falso sono perfino davanti agli stadi, il giorno della partita!

    Sui ricavi tv dovrebbero invece lamentarsi le piccole squadre, che vedono ridotte a priori le “piccole” di lottare per una dignitosa serie A, ormai squilibratissima, come dimostra l’ultima edizione. Il maggiore differenziale di distribuzione è nella Liga, con un rapporto di 7:1 tra la squadra che ha ottenuto di più e quella che ha ottenuto di meno (colpa, si è visto di Real e Barcellona), ma poi c’è la Serie A, con un rapporto di 4,4:1, poi la Ligue1 (3,3:1), la Bundesliga di 2,5:1 e la “purissima” Premier League di 1,5:1.

    Spazzato via anche questo alibi, restano le conclusioni. La Serie A è stata relativamente più ricca, e può tornare a esserlo: servono investimenti infrastrutturali e visione manageriale. Quell’inseguito equilibrio economico che ha ridotto il calciomercato a una mimica può benissimo essere ritrovato al rialzo. Gli stadi di proprietà sono quel rischio d’impresa che i proprietari delle società conoscono benissimo, per averlo praticato nelle loro floride aziende: sono imprenditori, non parvenue. Sanno come si fa: eppure nel calcio loro – che lamentano la mancanza di criteri economici -  sono i primi a sottrarsi alla missione. E dopo gli stadi, la capacità di commercializzare il brand: anche questa è cosa ovvia, è il “manico” per chi fa il mestiere. La Germania ci ha messo un paio d’anni per avviare un sistema che dopo tre lustri dà sempre maggiori soddisfazioni e rendimenti sportivi ed economici. E poi c’è la dieta alla voce “costi”: i nostri presidenti terrebbero nelle loro imprese tutta quella manodopera improduttiva? Mai. Tre quarti dei ricavi sono mangiati dagli stipendi: fine della liquidità e dei sogni.

    Infine, bisogna ricalibrare gli obiettivi, come già scritto qui, su calciomercato.com, dieci giorni fa: i premi fanno ricchezza, ma l’Italia si è allontanata dalla Champions per aver (anche) trascurato l’Europa League. Così a spartirsi il bottino vanno tedeschi, inglesi e spagnoli (ogni presenza frutta almeno 40 milioni), e questo abbassa il montepremi a disposizione. Nell’ultimo anno, le società inglesi hanno ricevuto assegni per 151 milioni, quelli tedeschi 129 milioni e quelli spagnoli 167. Le italiane non arrivano a 80 milioni: un calcio sbagliato non vince e non guadagna e quindi non trova risorse per vincere e guadagnare, le cose possono cambiare o restare eterne come il mitico Uroboro, quel serpente che si morde la coda, avvelenando se stesso e ricreandosi senza fine, così anch’esso simbolo della ciclicità, come certe teorie antiche, chissà se i nostri dirigenti le conoscono.

     


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