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  • Settori giovanili, i bambini non sono adulti! E' caccia aperta ai piccoli talenti

    Settori giovanili, i bambini non sono adulti! E' caccia aperta ai piccoli talenti

    • Luca Vargiu
    “Se resta a giocare lì, continua a perdere del tempo. E di tempo ne ha già perso molto in questi anni” piccola pausa e poi aggiunge “qui da noi può crescere meglio, imparare di più e avere più visibilità” altro silenzio, sguardo serio e conclude “voglio parlare da solo con il ragazzo”.
    Queste sono le parole di un dirigente di una società di calcio, professionista.

    Sarebbe tutto normale se venissero rivolte a un procuratore (o qualcosa di simile) di turno, fa parte del gioco delle parti soprattutto quando c'è da convincere un calciatore – magari piuttosto giovane – a cambiare aria: la possibilità di crescere tecnicamente è un buon argomento, la visibiltà anche e l'incontro, privato, con il capo fa il suo effetto, da una certa importanza. 

    Diventa invece una stortura e un fatto grave se pronunciata sì da un dirigente, ma di un minuscolo settore giovanile di una piccola squadra di Lega Pro, alla madre e al padre di un bimbo di dodici anni. Esatto, dodici. Dieci più due. 

    C'è un adulto che gestisce (comanda) un settore giovanile che vuole parlare a quattr'occhi con un bambino per convincerlo ad andare a giocare nella sua squadra. Una trattativa vera e propria, come nel calcio dei grandi dove però queste parole le pronunciano gli adulti, tra di loro, liberi di esagerare, promettere, bluffare e garantire qualsiasi cosa per conquistare chi hanno davanti. Non tra un bimbo e un adulto con trentacinque, se non quarant'anni, in più. Invece accade, ed è anche peggio, perchè altri due adulti credono che l'incontro del figlio sia proprio necessario. 

    L'appuntamento è fissato e chissà quali argomenti metterà sul piatto il dirigente per convicere un bambino che, come da quando ha iniziato a tirare i primi calci al pallone, pensa soprattutto a giocare e divertirsi con i suoi amichetti. Gioco e divertimento invece non sembrano essere gli aspetti che interessano quei personaggi che nel mondo dei settori giovanili hanno ormai l'abitudine di gestire il lavoro utilizzando i meccanismi del calcio degli adulti. Qui ci sono da fare squadre competitive, tornei da vincere per dare lustro a misere società e allenatori infelici alla ricerca di trofei da mettere in curriculum, l'idea di formare e crescere i piccoli attraverso lo sport non è certo la priorità. Ammesso che qualcuno ci pensi ancora. 

    Per accaparrarsi il piccolo viene quindi prospettatta non solo la non così impossibile eventualità  di un futuro da calciatore nei grandi club, magari chissà, proprio nella sua squadra del cuore ma anche la  possibilità di aggiudicarsi dei premi durante l'anno in base ai gol segnati e poi, è certo, che due o tre paia di scarpini colorati, quelli che tanto fanno giarre la testa ai calciatori di tutte le età, sono garantiti. Nostalgia dei compagni? Nessun problema la società è disposta a prendere anche il suo migliore amico per farlo stare bene.
    Bimbo conquistato. Facilmente, ovvio.

    I genitori euforici, che ora pensano di aver raggiunto chissà quale traguardo, realizzeranno (forse) solo tra qualche anno, quando il piccolo sarà uno dei tanti e non il fuoriclasse che oggi il dirigente dice loro di avere in casa, l'errore commesso ma ormai sarà tardi. 

    Una situazione che negli ultimi anni sta diventando un classico per diversi motivi, il primo è che per alcune società, soprattutto se piccole e come accade sempre con più frequenza con il settore giovanile scollegato e dato in “affitto” ai tanti nuovi imprenditori del pallone che pensano di fare business con i piccoli, la caccia alla quota è fondamentale. Un picccolo calciatore in più è una quota per 12 mesi in cassa, garantita, e soprattutto è un numero in meno per altra società nelle vicinanze. Aspetto questo da non sottovalutare perchè prima della qualità servono i numeri, avere più tesserati significa avere più quote, maggiori possibilità di trovare qualcosa di buono che corre dietro al pallone e averne in più rispetto ad altri. Conta prima la matematica, alla faccia dei sani principi che lo sport deve trasmettere. 

    Vale anche per le società più grandi lo conferma il numero di osservatori presenti sugli spalti durante le partite dei più piccoli, fateci caso. Si cerca prima la quantità e dopo il talento, e se già questa mancanza è sufficiente per essere un problema serio, a rendere più grave la situazione si aggiunge il fatto che sempre più frequentemente la ricerca del piccolo giocatore è legata ad altri fattori. Spesso il valore aggiunto dato dalle potenzialità imprenditoriali della famiglia che magari con una bella azienda ben avviata alle spalle o semplicemente in salute economicamente, all'occorrenza, sia in grado di investire sul campioncino di casa, è un elemento che influisce sulla scelta della quota da portare dentro. Così il dirigente, con calma e un passo alla volta, riesce a tirare in mezzo il genitore che inebriato e stordito da quello che il pallone potrebbe riservare al pargolo, per qualche anno contribuisce. Sempre più. Anno, dopo anno. 

    Incredibile la potenza che ha il pallone in queste situazioni, su queste persone, e chi pensa che siano solo casi isolati sbaglia di grosso perchè nei settori giovanili – specie quelli di nuova generazione –  la ricerca del genitore-sponsor è molto diffusa, esattamente come nel calcio dei grandi. Anche se è più semplice dimostrare che diventare davvero dei calciatori è complicatissimo e che comunque il percorso per riuscirci non è certo questo, davanti a certe opportunità ben raccontate e confezionate si fa fatica a riflettere, anzi si riflette sempre meno. Anche quando di mezzo ci sono i bambini. 

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