Calciomercato.com

  • Spagna, tutta un'altra storia rispetto alla Jugoslavia: il calcio riunirà il paese

    Spagna, tutta un'altra storia rispetto alla Jugoslavia: il calcio riunirà il paese

    • Furio Zara
    E’ una questione politica. E’ una questione sportiva. E’ anche una questione etica e civile. Dunque: la Spagna è divisa. In Catalogna si è votato per l’indipendenza in un clima da guerriglia. Lo sport in generale, il calcio nello specifico che ci interessa, non ne è rimasto immune. 

    Abbiamo letto, visto, sentito: il Barcellona a porte chiuse, gli appelli di Guardiola e Piquè al voto, la protesta di Madrid roccaforte della Spagna unita, lo stesso Piquè - simbolo catalano - che in nazionale viene osteggiato, fischiato, criticato e risponde dicendo che "la nazionale è la mia famiglia". E’ un primo passo - quello del difensore spagnolo - verso un’unità che - nella nazionale spagnola - è stata scalfita più volte da divisioni interne, ma non ha mai rischiato - seriamente - di rompersi. I recenti fatti di Spagna possono in qualche modo riportare alla mente quel che successe in Jugoslavia, all’alba degli anni ’90. E’ lecito interrogarsi: può essere questa - in Catalogna - l’anticamera di una divisione del paese anche a livello sportivo? Non sarà così. Non andrà così. 

    Cerchiamo di capire il perché: la tragica, violenta e sanguinosa dissoluzione della Jugoslavia vide, quasi contemporaneamente, disgregarsi il paese e la nazionale di calcio. Non a caso gli storici concordano nel ritenere che i feroci scontri tra tifosi della Dinamo Zagabria e della Stella Rossa misero in scena - in maniera definitiva - il conflitto che di lì a poco avrebbe distrutto la Jugoslavia. Le curve degli stadi, all’epoca, pilotate e finanziate da leader politici, furono le prime a fiutare il vento di guerra e a utilizzare lo sport come strumento per il consenso di massa. Basti qui ricordare che a poche settimane dagli scontri, lo stadio Maksimir di Zagabria riaprì per un’amichevole tra Jugoslavia e Olanda e la nazionale di Osim (con i clan di serbi, croati, sloveni in lotta tra loro), che si preparava al Mondiale italiano, venne sonoramente fischiata per tutta la partita. In tutti gli stadi jugoslavi - in quel periodo - si fece - letteralmente - la guerra, una guerra che diede sfogo ad un odio sorvegliato a fatica per tanto tempo. L’ultima partita dei “Plavi” è datata 13 novembre 1991, al Prater di Vienna, contro l’Austria. Da allora la Jugoslavia non esiste più. Il resto purtroppo è storia tragica e nota. 

    Tornando alla questione spagnola: non è la prima volta che in Catalogna si prova a tenere un referendum sull’indipendenza catalana: c’era già stato un tentativo tre anni fa, bloccato dal Tribunale costituzionale spagnolo e trasformato in una consultazione informale. La tensione sociale è evidente, ma le rivendicazioni di un’identità storico-culturale e di una autonomia finanziaria - per fortuna - non sono ancora sfociate in una guerra civile. Anche i campioni dello sport devono imparare a usare parole e concetti saggi, improntati ad unire e non a dividere. Piquè - dopo le lacrime indipendentiste dell’altro giorno - ha fatto retromarcia. E’ un buon segno. Ci sono le premesse perché la nazionale di calcio della Spagna rimanga tale, più forte - nonostante tutto - di qualsiasi divisione tra castigliani, catalani, baschi, galiziani. Per uno sport non immune alla politica (è impossibile), ma capace di gestirla mantenendo la propria - questa volta sì - autonomia.

    Altre Notizie