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  • Spalletti e la 'minaccia' d'addio? Sa già che ha salvato la Roma
Spalletti e la 'minaccia' d'addio? Sa già che ha salvato la Roma

Spalletti e la 'minaccia' d'addio? Sa già che ha salvato la Roma

  • Fernando Pernambuco
Tutti e tre toscani. Tutti e tre con alcune caratteristiche inconfondibili, qualche tratto ispido e derisorio al tempo stesso, una certa vis polemica più o meno trattenuta e anche un certo senso di “soli contro tutti”. Sono i tre che vanno per la maggiore in serie A: Allegri, Spalletti, Sarri. Tutti  toscani, pervasi più o meno da quel maledettismo su cui Malaparte scrisse un intero libro: “Maledetti Toscani”. Sì, i toscani sono ancora un po’ maledetti, bastian contrari, sbeffeggiatori, provocatori, ironici.  Quelli che - scriveva Malaparte - “quando gli altri piangono, loro ridono e che se partecipano a un funerale diventa un rito ironico: i fiori si mettono a puzzare, le lacrime seccano sulle gote, le gramaglie cambian colore, perfino il cordoglio dei parenti sa di beffa”.
 
Ma nel fondo comune, i tre contano belle differenze, in sintonia coi diversi luoghi d’appartenenza: Livorno, Figline Valdarno, Certaldo. Marittimo, aperto ai venti anarchici della costa, Allegri; di pianura e con ascendenze napoletane, Sarri; di pura e antica collina, Spalletti. Se sul campo son tutti allenatori capaci e vincenti, è in sala stampa e nel più vasto settore della comunicazione che vi è un solo vincitore: Luciano Spalletti. Sarri ne farebbe volentieri a meno d’incontrare i giornalisti, di rispondere alle domande: il suo impulso primario (e anche secondario) è quello grillesco del vaffa. Si capisce che sta lì davanti a chi pone domande perché lo deve fare, perché è pagato anche per questo, ma è una corrucciata pentola a pressione sempre sul punto di esplodere e piantare tutti in asso. Allegri, livornese anomalo perché sornione e poco esibizionista, sceglie la strada dell’ ovvio e del banale: la prossima partita è sempre la più importante; la Juve non deve temere nessuno; sì, gioca questo, ma potrebbe giocare anche quest’altro e via dicendo.
 
Spalletti, no. Spalletti se le va a cercare. Apparecchia il suo palcoscenico, avvicina la bocca al microfono e centellina la dizione. Alle domande scomode fa sempre finta di non capire: “Come, scusi, può ripetere?” e poi stende il temerario interlocutore con una risposta lunga qualche chilometro. L’atteggiamento è del semplice che la sa lunga, lunghissima. Di chi pesca nel pozzo del contado boccaccesco per rilanciare, dopo una serie di “si potrebbe fare così, ma anche no; se lo dice lei, ma io non lo dico, anche se potrei”, con una domanda finale: “forse, però, lei lo sa meglio di me perché segue la Roma da più tempo. Che vuole io sono un novizio, per di più nato nella campagna toscana”; “senta, me lo dica lei chi deve giocare e io lo metto in campo, glielo giuro”.

C’è sempre un Bertoldo, nascosto in Luciano, che la sa lunga, la sa lunghissima, con la sua miscela d’astuzia e di reticenza, di trattenuto sberleffo e di finto stupore. “Questa poi…” sembra sempre sul punto di pronunciare, ma non lo fa mai: lo esprime coi gesti, con gli occhi strabuzzati, e si lancia in una disamina lenta, strascicata, condita da un  rispetto per l’interlocutore troppo eccessivo per essere autentico. Se potesse darebbe del voi a tutti per marcare la distanza tra uno che “sa” e molti che non sanno un accidente, ma parlano.
 
Nei bar di Certaldo di Spalletti ne vedreste molti. Furono giovani che la sapevano lunga, che ridevano poco oppure esibivano un riso amaro, dalle venature asteniche e sfibrate, ma ne “avevano fatte di cotte e di crude” e per questo suscitavano, in fondo, una certa ammirazione. Erano quelli che dopo essere stati visti insieme alla più bella del paese, proferivano un quasi spazientito “Oh che volete? Si fa quel che si può”. Avventurosi, ma solerti, pervasi da un esibizionismo sottile e avvolgente e da quell’orgoglioso senso di solitudine, periferico eppure al centro del mondo, proprio dello “Strapaese” toscano. La vendetta della provincia, in cui ancora si trovano gli antichi valori (fraternità, semplicità, acume)  contro le lusinghe della metropoli.
 
Spalletti, come Maccari, Longanesi, Bilenchi e lo stesso Malaparte, sembra portarsi dentro il motto della rivista “Il Selvaggio” che negli anni Trenta fondò a Colle Val d’Elsa (non lontano da Certaldo) proprio il movimento dello “Strapaese”: “E se sarai solo, sarai tutto tuo”. E’ sempre, al fondo, “tutto suo” ed anche un po’ “solo”, Luciano, che sa di aver salvato la Roma l’anno scorso e di esserne il punto fermo oggi, senza sentirsi mai accasato del tutto. In giro per l’Italia e per il mondo, la Russia, e poi di nuovo la capitale, in cui è tanto difficile lavorare, col peso d’una pressione mostruosa sulle spalle alla quale non vuole rispondere in modo demagogico, come fecero Zeman o Garcia.
 
Pieno di falsa diplomazia, con quella parlantina strascicata usata un po’ come scudo, un po’ come durlindana, sulla falsariga di Ulivieri (che però sapeva tirare anche di fioretto) per tenere a distanza la “plebe” romana (i tifosi, la stampa, le radio blateranti), Spalletti circuisce il mondo che gli sta intorno. Lo fa per istinto e per calcolo, per temperamento e per istinto di sopravvivenza, ma talvolta si lascia scappare quella verità, che cova nascosta sotto la cipria dell’attor furbo: “Se non vinco, me ne vado” ha detto a un giornalista francese, scatenando la diffidenza romanesca-romanista, la quale chiede solo assoluta dedizione. Già, senza lunghi giri di parole, senza ammiccamenti, né punti interrogativi. Tanto un bar, nel cuore del Rinascimento, a Certaldo dove lo aspettano, si trova sempre.
 

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