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  • Quando diedi a Tardelli del razzista

    Quando diedi a Tardelli del razzista

    • Marco Bernardini
    Non dice manco "ciao", tanto sa benissimo che lo riconoscerò senza bisogno di presentazioni. Inconfondibile, la sua voce è un suono che mi si è infilato dentro da anni. Molto prima di quel urlo planetario che lo spinse direttamente nella leggenda prelevandolo dal campo verde smeraldo del Bernabeu in quella magica serata dell’Ottantadue. “Dimmi, Marco. Che vuoi e da quale parte del mondo chiami?”. Lui, Marco, è Tardelli il mio peggior “amico-nemico” dai giorni in cui era lo “schizzo nevrastenico” della Juventus. Come dire, una vita fa. “Chette frega di sapere dove sono. Ho bisogno di una cosa che non ricordo”. Fa il “duro”, come sempre, per mascherare la sua naturale e invincibile timidezza. E’ un libro aperto, però. Subito s’ammorbidisce: “Dài, non fare lo scemo ho davvero necessità che tu mi racconti cosa realmente accadde quella mattina nella Casa del Baron e perchè litigammo di brutto”. Mi è tutto molto chiaro, come se fosse ieri. “Ti definii razzista, tutto qui. Era la vigilia della partita con il Camerun e io ti dissi che quelli non avrebbero scherzato in campo. La tua risposta fu secca: mavalà sono soltanto dei neri… Così ti insultai.Tu reagisti. Arrivò Enzo per dividerci. Scrissi tutto sul giornale…”. Non mi permette di finire la frase: “Adesso ricordo bene. Proprio dopo quell’episodio che si sommò al gossip su Paolo  e Antonio che  si tenevano per mano come due fidanzatini scattò il leggendario silenzio stampa. Grazie per avermelo ricordato e ciao”. Troppo facile, amico. “Ciao un corno. Ora mi dici che stai combinando. A cosa ti serve questa informazione”. E così si arriva alla notizia:  “Sto scrivendo un libro. Sulla mia vita e sulla mia professione. Dovrebbe uscire in primavera. Me l’ ha chiesto la Rizzoli. Sicchè, me ne starò tappato nella mia casa di Como per un po’ di tempo. Ma, credimi, non sarà la solita autobiografia di quelle che ce ne sono una valanga in giro”. Non ho dubbi, Marco Tardelli  è diverso dagli altri. Forse da tutti. “Evviva, allora finalmente riusciremo a capire anche il  perché di quell’intervento da folle su Gianni Rivera, tantissimi anni fa, non appena l’arbitro aveva fischiato l’inizio della partita. Un mistero mai risolto”. Ride: “Fu Gianni a venirmi addosso…”. Il solito buffone.Non mi consente repliche. “Dài,  che ho fretta. Ci sentiamo, fratello”. E mette giù.

    Rimango con il telefono in mano e senza parole, come sempre dopo aver parlato con Marco Tardelli. Avrei almeno voluto dirgli che l’idea di rimettersi in vetrina attraverso un libro mi sembrava davvero ottima. Non sarà una storia di solo calcio. Sarà il racconto di uomini e persone, più che di personaggi. Qualcuno strano, qualche altro bizzarro. Tutti simili a lui, vittime di inquietudini e di notti bianche che neppure il Mogadon che il dottor La Neve lo obbligava a buttar giù aveva la meglio sulla sua fisiologica insonnia. Le vette più alte raggiunte partendo da molto in basso tra tazzine di caffè da lavare al bar della stazione di Pisa e sogni tricolore realizzati passando attraverso il bianconero. Lui sempre identico  a se stesso. Inguaribilmente vero e onesto sino a farsi del male come capitò all’Inter “dimezzata” che Moratti gli aveva affidato. Inguaribilmente “schizzato” al punto di  andarsene dal Consiglio della Juventus perché non gli andava il ruolo di bandiera senza diritto di dire e di fare.

    L’ho sentito in Radio l’altra mattina. Parlava di Conte e della Nazionale. Anche di quella che verrà perché ormai lo sanno anche i sassi che il ct lascerà Casa Italia dopo gli Europei, salvo improbabili ricapovolgimenti ideologici. Impossibile non intuire dalle sue parole il desidero di farsi sotto e di essere preso in seria considerazione per l’eventuale successione sulla panchina azzurra. Lo voterei immediatamente, senza se senza ma. Tardelli Cittì. L’uomo giusto al posto giusto e soprattutto al momento giusto.  Adesso. Dopo le mille lezioni ricevute e metabolizzate insieme a Cesare Maldini e a Giovanni Trapattoni come vice attento e pensante. Come  simbolo, praticamente indistruttibile, di un’intera nazione e forse del mondo intero conquistati da quel “urlo” che, con quello di Munch, è già nella galleria dei capolavori umani. Un poco come nel film da culto “Casablanca” quando Iisa (Ingrid Bergman) si rivolge al pianista nero e gli fa: “Suonala ancora, Sam”. Non resta che aspettare. E sperare.

     

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