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  • Una moratoria sulle non esultanze

    Una moratoria sulle non esultanze

    • Pippo Russo

    Il gol come sofferenza. È una negazione dello spirito del gioco quella che porta i calciatori a non esultare quando segnano contro le loro ex squadre. Un comportamento al quale ci siamo abituati un po’ troppo facilmente, causa una melensa inclinazione collettiva verso i buoni sentimenti, produttrice di risultanti devastanti. Tipo gli show televisivi densi di oscene lacrimevolezze, o Fabio Volo autore di best seller editoriali. E invece avremmo dovuto preoccuparci da subito di questa distorsione emotiva, di un’auto-repressione individuale che alla lunga compromette l’anima del calcio. Che è lo sport in cui mettere a segno un punto è l’impresa più difficile, l’unica disciplina di squadra in cui lo 0-0 di partenza ha anche buone probabilità d’essere il punteggio finale. Mettere il pallone nella porta avversaria è il coronamento d’una dura fatica di squadra, il frutto d’un lavoro che dura settimane, e che a sua volta ha alle spalle un lavoro di mesi. Ciò che giustifica l’abbandono alla smodatezza, e fa del calcio una delle residue isole emotive in cui lasciarsi andare alla palese e inoffensiva manifestazione del tumulto interiore è cosa lecita. Anzi, quasi obbligatoria, visto che quella gioia individuale è solo quota parte di una gioia comunitaria. 

    E invece cosa succede? Succede che sempre più spesso l’attore principale di questo dramma collettivo, colui che ha il privilegio di trasformarlo in un’onda di passione come se fosse possedesse arti magiche, è il primo a ritrarsi. Trasformando il Carnevale in Quaresima, e l’orgasmo in castrazione chimica. Abbiamo visto crescere nei nostri campi da calcio una generazione di pentiti permanenti. Bipolari della pedata calati in un grottesco psicodramma. Non guardano alla gioia personale e della comunità che rappresentano adesso, ma al dolore verso ciò cui erano appartenuti. Assestano il colpo e chiedono subito perdono, come se assestare il colpo non fosse il loro mestiere. A volte non hanno nemmeno lasciato un gran ricordo dove sono passati, ma ciononostante si uniformano a un malinteso senso del rispetto sommamente irrispettoso verso il loro presente. 

    Ovvio che ciascuno sia libero di manifestare e manifestarsi come crede, né si può imporre un codice di comportamento sul modo d’esternare in campo i propri stati d’animo. E tuttavia si ha l’impressione che su questa strada si sia andati troppo oltre. Specie in un mondo del calcio come quello odierno, dove a un calciatore può capitare d’essere spostato ogni sei mesi e la condizione di ex è un curriculum sterminato. Ieri i casi si sono sommati. Al San Paolo abbiamo visto Quagliarella – uno che, con quella lista di trasferimenti, rischia di poter esultare soltanto durante la partitella del giovedì – chiedere scusa a mani giunte alla curva napoletana, che pure lo colmava d’improperi. E a Palermo s’è toccato l’apice: con tre gol su quattro segnati da ex, e relative musonerie da Actors Studio. E in effetti ce ne sarebbe, da prendere quelle pose da non esultanti e costrurvi delle maschere. Quelle di Ilicic davanti al suo ex pubblico rosanero: prostrato davanti alla Curva Sud dopo il primo gol, e poi tutto una smorfia di dolore dopo il secondo, come se gli avessero appena cavato un dente senza anestesia. Ma anche quella di Gilardino, che dopo aver segnato ai suoi ex compagni è tornato verso centrocampo corricchiando come se gli avessero appena fischiato fuorigioco. Straniamento puro, destabilizzazione emotiva che colpisce il popolo tifoso. E andando indietro con la memoria si ritrova esempi di non esultanze che sfiorano il grottesco. Come quella volta che Miccoli allo Stadio del Mare segnò un gol al “suo” Lecce su punizione, e oltre a tornare verso metà campo con l’aria di chi ha appena perso un parente chiese pure di essere lasciato negli spogliatoi dopo l’intervallo. O come quando Marco Materazzi, ancora giovane difensore del Perugia, segnò all’Inter e non esultò perché quella era la sua futura squadra. Pentimento preventivo. 

    Guardando a tutto ciò, si capisce che è il momento di dire basta. Dateci un taglio, e fate una moratoria sulle non esultanze. Siamo tutti ex qualcosa, ma mica stiamo tutti a farne una tragedia? Un gol è sempre un gol, va celebrato a prescindere. Chi vuol aversene a male, se ne abbia pure. I tradimenti, nel calcio come nella vita, sono ben altri. E se poi davvero qualcuno vuol continuare a affliggersi per avere fatto male a un pezzo del suo passato, faccia qualcosa di più incisivo. Tipo devolvere una settimana di stipendio per ogni gol segnato contro il proprio passato. Le buone cause in attesa di fondi non mancano. Volete vedere che davanti a una prospettiva del genere tornano tutti a esultare come ossessi? 

    @pippoevai

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