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  • Vent’anni senza Brera
Vent’anni senza Brera

Vent’anni senza Brera

La compagnia degli Abatini. Rombo di Tuono. Bonimba. Piscinin. Ma anche contropiede, centrocampista, libero. La lingua e le sue invenzioni: è questo il segreto del giornalismo di Gianni Brera, anche oltre le opinioni, i partiti presi, le battaglie ideologiche.

Mercoledì saranno 20 anni di pallone senza la sua firma, e forse è un pò anche per questo che le domeniche hanno sempre meno l’aura del mito. Gioan fu Carlo era nato in provincia di Pavia nel 1919; paracadutista della Folgore fuggito alla Gestapo e poi partigiano; laureato in Scienze politiche e di profonda cultura classica; allievo ideale dei Bacchelli e degli Zavattini

un passato giovanile da centrocampista di quantità e qualche timido tentativo da pugile, anzi da “pugilatore” avrebbe scritto lui; a 30 anni il più giovane direttore della Gazzetta dello Sport, dopo i mirabolanti reportage dal Tour tra cui spicca un celebre ritratto di Fausto Coppi. Poi capo dei servizi sportivi della novità Il Giorno, il Giornale, Repubblica, in mezzo la direzione del Guerin Sportivo dove dialogava con i lettori di calcio e vita col soprannome di Arcimatto.

Per Umberto Eco, il suo giornalismo fu un «Gadda spiegato al popolo». E risulta curioso - paralleli lombardi a parte - che sia suonato come giudizio di condanna proprio in bocca al più divulgativo degli intellettuali moderni. La creazione di parole, e soprattutto di epiteti, aveva davvero qualcosa di epico: come il soprannome omerico, instradavano il lettore associandosi in un lampo agli eroi narrati. Riva era “Rombo di Tuono”, tanto quanto Achille è e sarà per sempre piè veloce.

Così Gianni Rivera diventa “Abatino” perché fisicamente troppo fragile, leggero. Al suo opposto c’è la potenza devastante dell’attaccante del Cagliari, avvertita ancor prima che scocchi la saetta appunto come il rombare di un tuono. Prima, c’era stato “Peppìn” Meazza e quel nomignolo lombardo raccontava la grandezza umile del campione di un’altra epoca.

La classe di Causio poteva avere un solo nome: Barone, anche se in origine il nome era “Baron Tricchetracche”, a immagine dei fuochi d’artificio delle sue finte. È una forza della natura quando tira di sinistro Paolino Pulici, e subito diventa “Puliciclone”. Rotonda la gioiosa propensione al gol di Boninsegna, all’arte “Bonimba”. La corsa costante di Lele Oriali assomiglia alla pallina di un flipper, di qui “Piper”. Per chi lo aveva visto crescere sin da bambino nelle nebbie delle giovanili Milan, Franco Baresi non poteva essere che il “Piscinin”.

Helenio Herrera è “Accaccone”, in piccolo c’è Heriberto che è “Accacchino”. Gullit diventa “Simba”. Virdis invece “Massinissa”. Tra i grandissimi, Maradona diventa un “Prestipedatore”, Armando Picchi era stato “Penna bianca”. Poi c’è l’amore per il Genoa, il “Vecchio balordo”.

Ad ispirare il personalissimo glossario atletico c’era una divinità privata “Eupalla”, protrettrice del bel gioco così come Atena lo era stata degli eroi greci sotto le mura di Troia. L’ideologia del calcio di Viani e Rocco ha delle parole chiave: il difensore aggiunto è un battitore “libero”, e a distanza di anni sarà titolato così il film internazionale su Franz Beckenbauer (“Il libero”); l’azione che riparte dalla difesa un “contropiede”, parola mutuata dal movimento opposto del coro nella tragedia greca. Ci sono anche definizioni semplici: se un calciatore per ruolo agisce al centro del campo, come chiamarlo se non “centrocampista”?. E se un attaccante segna molto, atterrando un avversario come il matador fa col toro nell’arena, non sarà forse un “goleador”? C’è poi un’altra pagina del linguaggio breriano. L’amata terra bagnata dal Po è “Padania”, all’origine solo un’ indicazione geografica senza implicazioni paraparlamentari. Berlusconi che sbarca nel calcio è il “Cavaliere”. E chi col pallone cinchischia a centrocampo fa “melina”: era solo un gioco in voga a Bologna, è diventato anch’essa categoria dello spirito umano.

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