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  • Vivai e stranieri, la Fifa boccia la serie A

    Vivai e stranieri, la Fifa boccia la serie A

    Le batoste del calcio italiano nelle coppe europee e il suo costante declino nel ranking Uefa hanno anche una spiegazione statistica: i club della serie A sono in coda alla classifica continentale - trentunesimi su 31 - per l'impiego in squadra dei giocatori provenienti dai vivai. Inoltre si confermano ben poco attenti alle risorse nazionali: sono infatti infarciti di stranieri, assai più di Germania e Spagna, che dominano la Champions League con parecchi indigeni. L'impietosa diagnosi, già anticipata da Repubblica è adesso controfirmata dalla Fifa, attraverso la  pubblicazione sul numero di marzo/aprile della rivista Fifa World di un articolo che riassume i passaggi salienti dello studio demografico del CIES (il Centro Internazionale Studi sullo Sport) e mette a nudo i vizi di una politica per nulla lungimirante. Lo studio sulle 31 principali leghe calcistiche europee è corredato da due tabelle davvero spietate, nella loro crudezza, verso le nostre società di calcio.

    Nella prima l'esterofilia parossistica del campionato italiano è testimoniata dal quinto posto per l'impiego dei calciatori stranieri: soltanto le leghe cipriota, inglese, portoghese, belga, italiana e turca - nell'ordine - superano la soglia del 50% (52,2%). L'Italia, insomma, è in cima alla graduatoria di chi trascura i propri talenti. Ma il dato diventa addirittura imbarazzante alla lettura della seconda tabella, quella sulla percentuale dei calciatori provenienti dai vivai. Qui l'ultimo posto non ce lo toglie nessuno, con una percentuale ben al di sotto del 10% (7,8), lontano dalla Germania (14,7), dall'Inghilterra (17,5), dalla Francia (21,1) e naturalmente dalla Spagna (25,6).

    A poco vale il parziale cambio di rotta del Milan, che ha finalmente lanciato tre giovani azzurri: i ventenni El Shaarawy e De Sciglio, oltre al ventiduenne Balotelli, ripescato dalla Premier League. Nel caso dei due attaccanti, però, si tratta di calciatori cresciuti altrove e poi acquistati a caro prezzo. Se ne evince che il ritardo formativo accumulato dai grandi club italiani, rispetto a quelli stranieri che allevano in casa i propri talenti (Barcellona e Manchester United su tutti), difficilmente potrà essere colmato in tempi brevi. "È rassicurante come questo studio demografico dimostri che investire nella promozione del calcio giovanile non costituisce alcun freno ai risultati sportivi", chiosa il segretario generale della Fifa, Jerome Valcke. Per indiretta che sia, è l'ennesima stoccata del governo di Blatter al calcio italiano.

    L'allarme è ai massimi livelli. Lo lancia autorevolmente l'avvocato Leonardo Grosso, presidente della Fifpro, il sindacato mondiale dei calciatori, e consigliere dell'Aic, il sindacato italiano, fin dalla sua fondazione.

    Avvocato Grosso, le statistiche della Fifa sono davvero così allarmanti?
    "Direi proprio di sì. Definirei impietoso il quadro della capacità del calcio italiano di coltivare i giovani talenti. Lo studio è stato condotto su 31 paesi europei. E i numeri sulla percentuale dei calciatori formati nel club di attuale appartenenza e sulla percentuale di stranieri  tesserati non mentono. Anzi, se si approfondisce l'analisi, si scopre che la situazione è ancora peggiore".
    In che senso?
    "Per numero di calciatori formati nei club siamo clamorosamente ultimi, con una percentuale sotto il 10%. Ma la percentuale "effettiva" è ancora più bassa".
    Perché?
    "Perché è stato utilizzato il criterio di considerare "formati nei club" i calciatori che siano stati tesserati per almeno tre stagioni tra i 15 e i 21 anni, comprendendo così nel dato anche i molti calciatori, spesso stranieri, tesserati a 18 anni, quando cioè sono ormai "formati". E poi la statistica è più dura anche per un'altra ragione".
    Quale?
    "Che il numero complessivo dei calciatori delle prime squadre include anche alcuni giovani del vivaio, aggregati ma destinati a giocare poco o nulla".
    Quanto al ricorso agli stranieri, però, c'è chi esagera più di noi.
    "Anche qui bisogna leggere con molta attenzione il dato, che comunque ci colloca già in partenza nelle prime posizioni, al quinto posto. Se andiamo oltre l'aridità delle cifre, scopriamo di essere "piazzati meglio"".      
    Si spieghi.
    "Cipro, che è primo in classifica, è notoriamente il paese nel quale vengono fatti transitare i calciatori provenienti dal Terzo Mondo per farli diventare "comunitari". In Inghilterra, che è seconda, sono "stranieri" anche scozzesi, irlandesi e gallesi. Il Portogallo, terzo, ha rapporti storicamente particolari col Brasile, che è il massimo paese esportatore con 524 calciatori tesserati all'estero, e rappresenta il ponte ideale tra Sudamerica ed Europa per l'acquisizione dello status di comunitario. Il Belgio, quarto, non solo nel calcio è il paese più europeo ed internazionale del panorama mondiale, per posizione geografica e vocazione".
    Non c'è un eccesso di pessimismo?
    "No. È realismo. Disaggregando i dati, le cose vanno ancora peggio. Uno potrebbe pensare che le società non utilizzino i calciatori provenienti dal proprio vivaio perché ne scelgono altrove di migliori per ottenere risultati migliori. Macché. Non mi pare che i risultati dei nostri club nelle coppe siano stati esaltanti".
    Non negherà che ingaggiare i campioni, come fanno Real Madrid, Psg e Manchester City, porti a vincere.
    "Anche il formare i calciatori in casa. Lo studio evidenzia quanto siano alte le percentuali di calciatori provenienti dal vivaio in società come ad esempio il Manchester United (40%), il Barcellona (59%), l'Ajax (55%) e il Montpellier, che l'anno scorso vinse la Ligue 1 col 44% di calciatori provenienti dal proprio settore giovanile".
    Ma perché, se il quadro è così fosco, non si inverte la tendenza?
    "Questi dati sono ben noti agli addetti ai lavori e ai nostri dirigenti. Ma non cambia nulla. Solo alcune società tentano autonomamente, e ogni tanto ci riescono, di lavorare con profitto sui giovani. Tra l'altro questo andazzo comporta una pesante ricaduta sul sistema complessivo. Le serie inferiori pagano questa politica".
    Perché non incassano più denaro dalla cessione dei loro giovani in serie A?
    "Esatto. Non producendo più giocatori che fanno carriera, non prendono più soldi. Ogni Lega si è inventata una sua diversa "politica dei giovani", senza coordinamento. Tutte sono basate sul principio dell'obbligatorietà, esplicita o mascherata, di fare giocare dei giovani, a prescindere dal talento effettivo e curandosi ben poco della loro crescita".
    Secondo lei, dunque, non c'è soluzione?
    "Io credo che dovrebbe intervenire la Federazione, che invece di fatto accetta. Sarebbe dovere primario della Figc, nell'interesse del calcio italiano e della Nazionale, favorire lo sviluppo di giovani talenti autoctoni".


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