Calciomercato.com

  • 1000 volte Zeman, l'eretico del calcio che alla vittoria preferisce il gol

    1000 volte Zeman, l'eretico del calcio che alla vittoria preferisce il gol

    • Matteo Quaglini
    Ha festeggiato ieri le sue 1000 panchine. L’ha fatto proprio nella città, Genova e nello stadio il Ferraris, che gli hanno dato l’ultima grande e indimenticabile gioia, la promozione del Pescara in serie A nel maggio del 2012. Un attimo di vita sportiva capace di conclamarne ancora una volta la suggestione e l’utopia del suo essere allenatore. Allora vinse il campionato, ieri invece ha perso, ma non è questo quello che conta. Zdenek Zeman non si può ritrarre solo dentro una vittoria o una sconfitta, va tratteggiato più in profondità nell’idea rivoluzionaria del gioco, nella sua figura da viaggiatore dell’Est Europa e, nel suo ruolo: non solo di allenatore ma d’insegnante del gesto e del sincronismo. Un utopico che affascina anche nella sconfitta perché pone una domanda semplice e al tempo stesso centrale, tanto è filosofica. Cosa significa vincere in fondo? La vittoria, santo Graal da raggiungere ad ogni costo e con ogni mezzo per alcuni, Excalibur da elevare al cielo a simbolo del proprio trionfo personale ed egoistico per altri, massima famosissima del concetto che sia l’unica cosa che conta per il modello imperituro juventino, è per lui qualcosa di diverso. Di più suggestivo. Di più romantico. Di più complesso. E il suo aforisma “il risultato è casuale, la prestazione no” ne costituisce il manifesto e la spiegazione lineare della sua idea di vittoria.

    Per Zeman la vittoria è il miglioramento del proprio limite, delle proprie conoscenze che da poche diventano molte, che da semplici si trasformano in complesse senza mai perdere la base. In questo è molto vicino a Velasco, il grande allenatore della generazione dei fenomeni di pallavolo che teorizzava l’andare oltre il proprio limite, ma a differenza del conquistatore argentino Zeman è un eretico puro, un luterano nella chiesa ortodossa dell’Occidente cristiano del pallone italiano, un Giordano Bruno che non scende a patti col diavolo. Un uomo che dal 1969, gli anni dell’esordio dilettantistico nel Cinisi, gioca sempre la stessa magica e controversa partita, quella del 4-3-3, della difesa alta, del gol come ultima e unica vetta da raggiungere nella difficile scalata che è la vita applicata al gioco.

    In molti per questo l’hanno contestato, deriso, non considerato. Come se non fosse calcio europeo, come se non avesse portato “vittorie”, quelle altre, quelle più complesse e difficili da marcare con un titolo. Miglior attacco del campionato con Messina (1989), Lazio (‘95 e ’96)e Lecce (2005) nell’anno della prima Juventus di Capello schiacciasassi. Tante partite epiche e cavalleresche da iconografia medievale e francese rivoluzionaria, che immortalarono vittorie indimenticabili su le due grandi del calcio anni ’90 Juventus e Milan. L’idea di un sogno sempre possibile, di una rimonta sempre dietro l’angolo anche se l’avversario è avanti 3-0. Il lancio di giovani come Insigne, Immobile, Verratti che oggi stanno trovando a partire dai suoi insegnamenti, la continuità vera luce del talento.

    La marea sterminata di gol che le sue squadre hanno seminato sui campi d’Italia e d’Europa, e il Foggia dei miracoli di Signori e Baiano, pensato e costruito con Casillo e Pavone. La capacità di divulgare, nel nostro calcio eurocentrico, i flussi del gioco dell’Est Europa attraverso la conoscenza di Kolyvanov, Salimov, Vucinic, Bozinov e dei grandissimi Nedved e Boksic che più di altri hanno incarnato il suo calcio veloce, triangolato, suggestivo e ramingo.

    Queste forse non sono vittorie? Sì, lo sono, e segnano il confine anche con le sue controversie, presenti e forse ripetute che l’hanno in alcuni casi frenato. E’ il problema degli eretici, dei bastian contrari, ma è anche il ruolo che gli altri, i risultatisti, devono guardare con rispetto e ammirazione perché da nobiltà e senso allo scontro ideologico, alla contrapposizione d’idee tanto carente, oggi, nel nostro football casalingo. Zeman ha una sua magia anche nei “fracassi” come direbbero gli spagnoli, più grandi. Ha senso e contesto storico anche la notte “loca” di Tenerife, il 4-5 di un Roma-Inter demoniaco che lo esonerò di fatto da Roma. Il senso sta nell’idea di provare a realizzare un sogno, che è poi per tutti, il grande desiderio coltivato e nascosto al mondo. Lui, il boemo che viene da Praga ha tentato di realizzarlo lanciando e formando tecnicamente e tatticamente due fuoriclasse romani come Nesta e Totti, e ha tentato di difenderlo entrando in polemica con la Juventus che da ragazzo tanto amava. 

    Un denuncia di un modus operandi che non condivideva che l’ha portato fuori dalle mura come Umbertino da casale in nel nome della rosa. Una polemica che ha snervato la Juventus e ha prodotto inchieste, uno scontro non fondato sul rancore ma sull’idea, non troppo paradossale poi, di dire a chi si ama le sue manchevolezze, i suoi gravi errori. Ha lottato da eretico contro le due chiese laiche della sua vita, l’URRS che nel 68 recise la Primavera di Praga e la Juventus la squadra del suo cuore e dello zio Vycpalec, per insegnare la suggestione della vittoria, senza la quale, ogni successo è vano. Auguri per le tue 1000 panchine eretico Zeman, ti è mancata la cattiveria visionaria di Kubrick per essere grandissimo, ma hai insegnato e questa è la tua più grande vittoria.

    @MQuaglini

    Altre Notizie