Addio a David Stern, il dirigente che il nostro calcio non avrà mai
In queste ore è unanime il giudizio sui suoi meriti nell'avere pilotato la National Basketball Association statunitense dal rango di campionato nazionale (sia pure del massimo livello) a quello di torneo sportivo globale per eccellenza, capace di drenare risorse economiche, mediatiche e comunicative inimmaginabili nei giorni in cui egli assumeva il comando della Lega. Lo ha fatto nel ruolo di commissioner, un profilo dirigenziale molto simile a quello dell'amministratore delegato ma con poteri esponenzialmente più ampi. Soprattutto, l'avvocato Stern ha dato a quel ruolo un'interpretazione che ha fatto scuola e generato una vasta schiera di (tentati) imitatori. Mentre altrove, come in Italia, la filosofia e lo stile dirigenziale da lui inventati rimangono una chimera.
Ma per capire bisogna guardare un attimo allo specifico profilo del commissioner e al fatto che si tratti di una figura dirigenziale espressa da un modello, quello della lega sportiva professionistica nordamericana, sconosciuto in Europa causa diverso percorso storico-istituzionale. Come in Europa, la lega sportiva professionistica nordamericana è un'associazione di proprietari. Ma a fare la differenza è il titolo di proprietà: non già un club sportivo, dotato di una sua storicità, di una dinamica costitutiva bottom-up e di un radicato rapporto con la comunità locale; bensì una licenza (franchigia) da allocare in una municipalità (dinamica costitutiva top-down) la cui dimensione deve essere preferibilmente metropolitana, esportabile in qualsiasi momento per mere ragioni di convenienza economico-finanziaria (meccanismo del franchise relocation) e priva di una relazione originaria con la comunità locale. In siffatte condizioni la lega professionsitica nordamericana è un consesso di imprenditori dello sport-spettacolo in cerca di massimizzare un asset personale, ma consapevoli di potere ottenere il massimo soltanto attraverso l'azione unitaria. Il profilo del commissioner nasce in questo schema: un dirigente super-potente che risponde all'assemblea dei proprietari ma a cui vanno lasciati amplissimi margini di potere decisionale.
Chiaro che, così disegnata, la figura del commissioner sia al tempo stesso una grande opportunità e un altissimo rischio, e che la differenza sia data dal talento dirigenziale del singolo. In questo senso Stern è stato un fuoriclasse. Ha dato al profilo del commissioner un'interpretazione che continuerà a fare scuola. Quanto invece alla possibilità che il mondo dello sport europeo sia in grado di esprimere una figura del genere, non se ne intravede la possibilità. Chi maggiormente si avvicina al profilo è Javier Tebas Medrano, presidente della Liga spagnola, che però rappresenta un esempio da evitare. E quanto al caso italiano, siamo alla desolazione. L'esempio della Lega di Serie A è emblematico. Basta passare in rassegna i leader di Lega dell'ultimo quarto di secolo, che sono stati dirigenti di club o uomini di pura mediazione, se non addirittura vecchi arnesi (Matarrese, o Abete in versione commissario) richiamati in condizioni d'emergenza. E quanto al ruolo del direttore generale, esso non è mai stato messo nelle condizioni di emanciparsi dall'assemblea dei presidenti di club. I quali, al contrario dei loro omologhi NBA, continuano a usare il consesso per mettere su alleanze machiavelliche e proteggere interessi di parte. Certo, poi c'è stato un tentativo di ridisegnare la governance che ha portato al disastroso ticket Micciché-De Siervo. Un'esperienza da dimenticare in fretta. Se anche in via Rosellini arrivasse un David Stern, farebbero in modo di farlo scappare nel giro di due mesi.