Addio a Mario Corso, il 'piede sinistro di Dio'. Grande come la sua Inter
Corso ha legato il suo nome alla Grande Inter di Helenio Herrera, la squadra che ha segnato un’epoca vincendo in Italia e nel mondo. Nella sua bacheca 4 scudetti (1963, 1965, 1966 e 1971), 2 Coppe Campioni (1964 e 1965) e 2 Coppe Intercontinentali (1964 e 1965). Era la squadra che comunicava come una filastrocca: Sarti, Burgnich, Facchetti. Corso portava in dote l’estro, l’imprevedibilità, la capacità di risolvere e trovare pertugi nel buio di certi pomeriggi. Il suo idolo era stato Omar Sivori, per questo giocava con i calzettoni «alla cacaiola», abbassati, offrendo le caviglie nude agli avversari, quasi a sfidarli. Sembrava lento, ma non lo era. Sembrava tutto fuorché un giocatore: era gracile, ossuto, con le spalle cadenti; ma quelli erano anni che davano la cittadinanza anche a calciatori «normali» e non gonfiati da ore e ore passate in palestra. Giocava sulla trequarti sinistra, qualche volta in esilio all’ala. Aveva rapporti burrascosi con Helenio Herrera, che ogni anno ne chiedeva la cessione al presidente, Angelo Moratti, e ogni volta veniva rispedito al mittente. Per Moratti Corso era un vizio, un generatore di emozioni, il calciatore più amato, più di Mazzola e Facchetti, che di quella squadra erano i leader.
Era arrivato all’Inter nel 1957, con altri due ragazzi, Mario Da Pozzo e Claudio Guglielminoni. L’Inter lo pagò 9 milioni e gli fece un contratto da 70mila lire al mese. Corso ripagò con gli interessi rimanendo in nerazzurro fino al 1973, prima di chiudere la carriera con la maglia del Genoa, con cui giocò un biennio. In Nazionale non venne mai apprezzato fino in fondo. In undicenni (1961-1971) giocò soltanto 23 partite (segnando 4 reti), decisamente poche per uno dei più brillanti talenti della sua generazione. da allenatore si è seduto senza tante gratificazioni sulle panchine di Lecce. Catanzaro, Mantova e Barletta, con un’esperienza che nella Primavera dell’Inter e un passaggio in prima squadra - nel 1985-86 - quando Ernesto Pellegrini lo chiamò in sostituzione di Ilario Castagner. Ma all’Inter Corso era rimasto sempre legato, anche negli ultimi anni, quando in qualità di osservatore girava i campi di B e C.
Era lunare e lunatico, ma geniale; matto come per definizione tutti i veronesi, Gianni Brera lo chiamava il «Matto Birago» o anche «Mandrake», per le sue invenzioni. Era sopratutto il «Piede sinistro di Dio», un campione raffinato ed elevate, fintamente pigro e capace invece di lasciare ogni volta il segno. Qualche critico gli dava dello scansafatiche, in realtà Mariolino Corso sapeva esattamente quando distillare ogni singola goccia di splendore della sua immensa classe. Non esagerava, centellinava con parsimonia, così che ogni sua giocata rimanesse impressa nella memoria di chi lo ammirava. E così stato.