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  • Addio Eco: nel nome della rosa… granata

    Addio Eco: nel nome della rosa… granata

    • Marco Bernardini
    Più o meno nell’attimo in cui l’arbitro fischiava la fine di Bologna-Juventus, al Dall’Ara, uno degli ultimi giganti della cultura italiana e internazionale prendeva il volo per destinazione infinito. Umberto Eco, scrittore e semiologo e giornalista e intellettuale ad ampio respiro, moriva nella sua abitazione all’età di ottantaquattro anni lasciando attoniti soprattutto gli abitanti di una città che lo aveva adottato e nella quale continuava ad insegnare dopo aver fondato il celebre “Dams”.
     
    Nato ad Alessandria, ma autentico cittadino del mondo, l’ultimo rappresentate della razza-intellettuale in via di celere estinzione aveva conquistato ogni angolo del nostro pianeta Terra con libri destinati a diventare eterni modelli di cut come “Il nome della rosa” e “Il pendolo di Foucault”. L’ultima opera del maestro del “saper parlare bene e del saper dire correttamente” era uscita mesi fa. Il titolo “Numero Zero” era molto intrigante ma, in realtà, la critica non fu tenera con quello che venne definito, seppur  con grande rispetto, un “romanzo a metà”. Capita anche ai grandi.

    Eco mancherà moltissimo al mondo della cultura, ma non soltanto a quello. Era certamente un intellettuale sopraffino e un semiologo decisamente pignolo, ma egualmente era riuscito sempre a mantenere salva una freschezza di linguaggio e un potere di sintesi eccezionale che lo rendevano certamente non “popolare” ma altrettanto sicuramente comprensibile a tutti. Non a caso proprio con la creazione del Dams, l’Università dello Spettacolo, aveva attratto a sé eserciti di giovani affascinati da quella cultura che era patrimonio comune dell’umanità intera.

    Il linguaggio e la parola erano, per Eco, gli strumenti ideali e fondamentali per conquistare il mondo. Ma il suo uso doveva essere figlio di uno studio ben approfondito e reso fertile dal terreno della conoscenza. Il che significava l’amore e la pratica per il gioco della memoria. Non quella ripetitiva e pappagallesca, ma quella ragionata grazie all’allenamento del cervello.

    Il calcio, per esempio. Per Eco era un divertente fenomeno sociale sino a quando non tracimava nell’isteria e nella paranoia monoculturale. "Amo guardare le partite fino a quando l’agonismo non si trasforma in bieco e barbaro  antagonismo. In campo e sugli spalti. Anche il pallone e cultura e la cultura non è mai violenta o truffaldina”.

    Era tifoso del Torino per via dell’innamoramento giovanile riservato ai Grandi di Superga. E confessava che, ancora oggi, per mantenere brillante la sua memoria almeno una volta al giorno rimandava in silenzio nella sua testa uno dietro l’altro e in ordine di maglia i nomi della risa granata, da Bacigalupo e Valentino Mazzola. In una lettera, recente, a suo nipote scrisse: “Fai anche tu la medesima cosa con i tuoi beniamini della Roma a cominciare da Totti, ma non limitarti al nome del campione. Focalizza il suo viso e cerca di entrare nel suo cuore come lui ha fatto con te. Vedrai che alla lunga sentirai, per vivere, necessità di calore umano piuttosto che di Internet”.

    Una delle ultime lectio magisteri, di Umberto Eco. Lui che, pubblicamente, aveva chiesto un unico favore . Non farlo morire sotto il governo Berlusconi. Almeno in questo è stato accontentato.
     

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