Calciomercato.com

  • Bernardini: le lacrime di Rivera

    Bernardini: le lacrime di Rivera

    Ora ad Alessandria di grigio c’è soltanto il cielo. Il resto, sotto, è un trionfo di tinte arcobaleno. Basta poco ai “mandrogni” per essere felici. Gente sana, fiera e astuta sa che, prima o poi, una qualche benedizione arriva dall’alto. Come consolazione ad una vita spesso tribolata per via di una terra piatta e spesso avara dove, in inverno, le nebbie sono spesse come teli funerari e, in estate, le zanzare fameliche come vampiri. Sempre che non esondino i fiumi a trasformare il dramma in tragedia. Ogni tanto accade. Il “mandrogno” si rimbocca le maniche e ricomincia da capo, senza bestemmiare o alzare la voce. Si fa sentire, la gente, al Moccagatta. Eccome se si fa sentire. Adesso, specialmente, che i giorni della rifondazione sono stati spesi bene e che ci si dovrebbe preparare a raccogliere i frutti della semina. Intanto, da Genova, i ragazzi sono tornati con nelle sacche un bottino miracoloso.

    Ora ad Alessandria di grigio ci sono soltanto le maglie indossante dai giocatori della “Mitica”. Ma non è il colore della tristezza o dell’anonimo piattume. Riflessi dorati e magiche cangiature rendono allegre quelle casacche. I giovani, che non sanno perché non hanno potuto vedere, fingono indifferenza ma si vede che sono curiosi di sapere. Gli anziani, che conoscono benissimo la storia per averla vissuta, schiariscono le voci rese un  poco catarrose dai troppi sigari e non vedono l’ora di raccontare. Non è facile. La memoria setaccia lesta e nella gerla dei ricordi restano le cose più belle come i fili d’oro nelle retine dei cercatori del Kentukye. Sicchè basta rivederle anche soltanto per un attimo, quelle preziosità assortite, e subito ci si commuove. I vecchi, come i bambini, piangono spesso. Non solo per cruccio o  per dolore. Anche per amore. Troppo amore.

    Gianni Rivera, ufficialmente, ha pianto tre volte per la sua Alessandria. La prima quando a quattordici anni esordì con la maglia grigia in amichevole contro gli svedesi del AEK. Segnò un gol e le lacrime gli entrarono nella bocca spalancata per l’urlo di felicità. La seconda quando, un anno dopo e già titolare della Numero 10, i grigi persero a Torino contro la Juventus alla quinta di campionato per sette a zero. Lacrime isteriche. Di rabbia. La terza il giorno in cui, nel 1960, il suo ormai ex allenatore Pedroni lo scaricò dall’automobile per consegnarlo a Gipo Viani. Da quel momento in  poi avrebbe indossato soltanto e sempra la maglia del Milan oltre, naturalmente, a quella azzurra della nazionale. Ciao terra mandrogna. Ciao Alessandria. Il taglio delle radici fa sempre male.

    Gianni Rivera oggi ha settantadue anni. Vive a Roma. Sarebbe stato un eccellente dirigente nazionale di un calcio che lo ha rigettato perché, un poco come Zoff, troppo diretto e trasparente. Avrebbe potuto essere un ottimo “faro” per il suo Milan che Berlusconi,  nei tempi andati, non avesse scioccamente temuto di essere un  po’ troppo oscurato da una presenza ingombrante. Ha “rischiato” di essere un raro politico senza macchia se la politica non fosse spesso una fogna a cielo aperto e, tutto sommato, gli è andata di lusso. E’, invece, Gianni Rivera e basta. Un signore che, dopo essersi operato alle anche, è in forma senile perfetta, mentalmente lucido, socialmente impegnato a rendere meno difficile la vita per coloro che hanno bisogno. Una cosa non è. Un ex calciatore. Perché, come ha sempre amato dire, “Io non sono mai stato un calciatore.Io ho sempre e soltanto giocato a pallone”. Già, c’è una bella differenza. Una cosa sarà sempre. Alessadrino di testa e di sangue. Per questo confessa di essersi sorpreso,  ieri sera dopo il successo dei grigi sul Genoa, con gli  occhi lucidi.

    Gianni Rivera è la sintesi di una breve ma intensissima storia d’amore che si apre il  18 agosto 1943 nella camera da letto di un retro bottega. Lei si chiama Edera. Lui Teresio. Sono scappati da Alessandria, città di snodo ferroviario, sulla quale piovevano bombe americane e tedesche e hanno trovato rifugio nella frazione di San Bartolomeo. Nasce un bimbo. Lo chiamano Giovanni. Per tutti sarà Gianni. Due anni a campare nascosti come i topi. Poi la guerra finisce e si torna a casa per ricominciare tra le macerie e l’odore dell’olocausto. Edera fa la sarta. Teresio, ferroviere e fabbro, sogna per il figlio ciò che ui avrebbe voluto per se stesso. Giocare a palllone. Nell’Alessandria, magari! Il primo regalo è un pallone. Con i lacci che se colpisci di testa senti male. Gianni studia e diventare ragioniere, ma soprattutto frequenta l’oratorio Don Bosco all’ombra della Chiesa di Santa Mari del Castello dove il campo da calcio è in cemento. Lo chiamano già il “signorino”. Per Gianni Brera sarà, poi, “l’abatino”. Sedici anni così, in perenne scalata. La città addosso e anche dentro. Gli amici rimasti ancora oggi, mezzo come secolo e rotti dopo, come Gino Ressia che per ogni gol segnato da Gianni doveva pagare un frappè e rischia la bancarotta e come Mario che, con il pallone, sarebbe diventato più bravo di Rivera se la poliomielite non gli avesse fatto lo sgambetto. Il camposanto dove dormono Teresio e Edera perché a Milano proprio non ce la facevano a resistere. Ci sono sempre fiori freschi sulla tomba di famiglia. Una scatola da scarpe dove il babbo di Gianni riuniva ritagli di giornale dove si diceva di suo figlio insieme a un diario alessandrino. Laura, la moglie di Rivera, li ha pazientemente catalogati, rivisitati per la biografia del suo uomo che non fu mai calciatore pur essendo  sempre campione. Infine un pallone e una maglia. Il cuoio pesante del primo gol e la casacca ruvida del debutto. Per le lacrime di Rivera.
    (Dedicato a Mario Bardi, lui sa perché)

    Marco Bernardini

    Altre Notizie