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  • Brava Rachele, medaglia di civiltà. Ma nel calcio lascerebbero vivere un gay?

    Brava Rachele, medaglia di civiltà. Ma nel calcio lascerebbero vivere un gay?

    • Stefano Agresti
    E’ stata spontanea e meravigliosa, come chi compie un qualsiasi atto d’amore: “Questa medaglia d'argento è per la mia Diletta”. Diletta è la compagna di Rachele Bruni, venticinque anni, nuotatrice fiorentina, seconda nella massacrante 10 chilometri olimpica. Rachele ha dedicato a Diletta la sua impresa, alla faccia dei pregiudizi, con la stessa naturalezza che le due ragazze usano sui social per dimostrarsi i rispettivi sentimenti. Non sappiamo se sia stata coraggiosa, di sicuro è stata se stessa e tanto ci basta per rivolgerle un applauso speciale.

    Osservando Rachele (nella foto con Fashanu e Coco) così giustamente orgogliosa del suo amore, ci è venuto in mente un altro mondo, un altro sport, il nostro sport più popolare: il calcio. Ebbene, sarebbe possibile per un centravanti andare di fronte a un microfono e dire al mondo: “Dedico il gol al mio Antonio” oppure “Questa rete è per Giovanni, il mio compagno”? Cosa gli succederebbe? Come sarebbe accolto il giorno dopo nello spogliatoio, dai colleghi, dai compagni? E quale trattamento gli riserverebbero tanti tifosi, durante la partita successiva? Cosa gli griderebbero? Sul mercato, poi, ci sarebbe un ds o un allenatore disposti a prendersi in squadra un omosessuale?

    Il calcio per certi versi è un mondo meschino. Cassano durante un ritiro azzurro disse: “Sono froci, problemi loro, spero solo che in nazionale non ce ne siano”. Lippi, quando era ct, raccontava che lui nel mondo macho del pallone non aveva mai conosciuto omosessuali e che, se ce ne fossero, rappresenterebbero un problema. Belloli, all’epoca presidente della Lega dilettanti, definì le ragazze che giocano a calcio “quattro lesbiche”. Non più tardi di qualche mese fa Sarri, per offendere Mancini, gli ha dato del finocchio.

    Con queste premesse è evidente che fare coming out, per un calciatore, è un rischio enorme, perché questo mondo è rimasto indietro di un secolo, più o meno. All’epoca del fascismo, diciamo, quando la Juventus licenziò Carlo Carcano, l’allenatore con cui aveva vinto quattro scudetti di fila, dal ’30 al ’34, perché gay: il regime non voleva saperne degli omosessuali, intaccavano l’immagine dell’Italia forte e potente (in realtà pare che su di lui ci fossero anche sospetti di pedofilia, forse diffusi ad arte per aggravarne la posizione). E sapete come mai l’Italia decise di fare silenzio stampa ai mitici mondiali dell’82? Perché l’inviato di un quotidiano milanese scrisse poche righe, in tono scherzoso, su una presunta liaison tra Antonio Cabrini e Paolo Rossi. “Quando è troppo, è troppo”: e tutti zitti fino al trionfo di Madrid.

    Francesco Coco, uno che in serie A ha giocato a lungo, sostiene che di gay nel calcio italiano ce ne sono eccome, “ma se lo dicono vengono massacrati”. Come accadde a Justin Fashanu, il primo calciatore di fama mondiale a svelare la propria omosessualità. Accadde nel ’90, fu disintegrato: la comunità nera lo condannò, venne rinnegato perfino dal fratello, fu costretto a emigrare in America. Dove, nel 1998, morì suicida.

    Sarebbe bello, o forse sarebbe solo normale, se nel calcio ci potessero essere storie come quella di Rachele. Chissà se un giorno, dal nulla, spunterà un terzino o un’ala sinistra e dirà: “Sono gay”. Un coraggioso, un folle o solo, semplicemente, un innamorato.

    @steagresti
     

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