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  • Brehme e gli altri campioni che la vita ha preso a calci

    Brehme e gli altri campioni che la vita ha preso a calci

    Chi lo ha visto di sfuggita, ha detto che gli è parso di vedere un fantasma. Con la faccia scavata nella preoccupazione, gli occhi spenti, l’aria assente, Andreas Brehme sta colando a picco nei debiti. Deve pagare 200 mila euro al fisco, e come se non bastasse, sulla casa grava un’ipoteca di 400 mila euro.

    E’ finito in miseria e nessuno di quelli che si ricordano di quando faceva la fascia su e giù e andava a vincere le coppe e gli scudetti con la maglia dell’Inter e della Germania può credere a una cosa del genere. Tanto meno ha voluto rassegnarsi Franz Beckenbauer, che di Brehme era stato ct quando la Germania aveva alzato la coppa nel ’90. E’ stato proprio il Kaiser in persona a lanciare per primo l’appello: «Trovategli un lavoro». A proporglielo è stato un altro ex calciatore, Oliver Straube, che gli ha offerto un posto nella sua impresa di pulizie. «Siamo disposti a impiegare Brehme nella nostra azienda, così saprà cosa vuol dire pulire i bagni e i servizi igienici. Gli farà imparare come è la vita e potrà migliorare la sua immagine», ha detto Straube. Brehme non ha ancora risposto.
     
    Dalle stelle alle stalle è un veloce, tremendissimo attimo. Al giocatore paraguaiano Diego Mendieta andò molto peggio che a Brehme. Aveva scelto l’Indonesia per cercare fortuna, ma quando si ammalò di tifo e la società di calcio per cui giocava smise di pagargli lo stipendio, Mendieta non riuscì a pagarsi in tempo le cure e perse la vita. Lasciò un biglietto scritto a mano con cui ringraziava Dio, poi chiuse gli occhi. Addosso, aveva una maglietta del Barcellona.

    Oumar Diaby, portiere del Racing B, finì in miseria quando il suo club tagliò i viveri di vitto e alloggio. Guadagnava 450 euro al mese, ma il presidente Angelo Harry Lavin decise che anche quello era troppo. «Gli unici preoccupati per me erano gli allenatori della squadra e i miei compagni, oltre che la mia ragazza. Nel club, nessuno mi ha chiamato o è interessato alla mia situazione», disse Diaby. Per un po’ visse accovacciato in una stanzetta, una stufa per combattere il freddo.
     
    Accadde anche a Jorge Cadete, portoghese che giocò nel Brescia a metà degli anni Novanta. Il giorno dopo un gol di testa al Cagliari i giornali titolarono: «Il suo primo gol in Italia fa nevicare». Era arrivato per 300 milioni di lire, lo volle Lucescu. Arrivò a guadagnare quasi 4 milioni di euro. «Li ho persi tutti, non ho più niente. Ho investito molto denaro, ma non è andata bene. Avevo attorno a me gente che non ha agito onestamente. Nel momento in cui smetti di giocare, tutto cambia: gli agenti smettono di chiamarti, non sei più nessuno». Per un po’ ricevette un sussidio di 180 euro a settimana, cercò fortuna partecipando al Grande Fratello portoghese, poi come pr in un locale dell’Algarve, poi vendendo macchinette per caffè porta a porta. 
     
    Peggio è andata a Maurizio Schillaci. A 17 anni aveva esordito con il Palermo con due gol. Lo volle Zeman, in B, e mentre il cugino, Totò, diventava l’eroe delle notti magiche, per Maurizio iniziavano i guai. «Tutti dicevano che ero più forte di lui. Può essere. Di sicuro io non ho avuto la sua fortuna». Viveva nel lusso, aveva trentotto auto, aveva un contratto da 500 milioni (e per quattro anni). Quando si fece male, Maurizio iniziò la sua parabola discendente. Andò alla Juve Stabia e iniziò a drogarsi. La coca, poi l’eroina. Il divorzio dalla moglie. Finì per strada senza più un soldo in tasca. Adesso, a 51 anni, ha fatto una promessa: «L’eroina per me non esiste più. Ho toccato il fondo, ma ora voglio risalire». E ogni tanto guarda i bambini giocare in mezzo alla strada. «Li osservo – ha detto – e mi piacerebbe dare un calcio a quel pallone»

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