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  • Bucciantini: la fortuna di Benitez

    Bucciantini: la fortuna di Benitez

    È fortunato, Benitez: avrà novanta minuti pieni di significato, quando potevano essere vuoti come la sua eredità napoletana. Poi, lunedì mattina, probabilmente sarà a Madrid, per firmare il miglior contratto possibile per chi fa questo lavoro: quello per la panchina del Real Madrid. In Spagna ha fatto cose enormi, ai tempi di Valencia (due scudetti e una Coppa Uefa in tre anni, destrutturando il solito duopolio): il ricordo è un tenace alleato, evidentemente. A Liverpool vinse una Champions contro natura: per l’andazzo della finale con il Milan, e per il fatto che riuscì a giocare due finali (e una semifinale), assicurando un lignaggio europeo senza mai passare per la vittoria della Premier league. Da quelle parti, raccolse comunque l’Europa League nei sei mesi al Chelsea. In Italia ha piluccato qualcosa che restava sul piatto: il mondiale per club con l’Inter (apparecchiato da Mourinho), una Coppa Italia e una Supercoppa con il Napoli: quest’ultimo trofeo resta il più convincente, nei modi, nell’impressione che destò la partita araba contro la Juventus. Ma è una partita sola, non va costruita, va solo giocata e vinta. E di singole, clamorose esibizioni è fatta la carriera napoletana di Benitez: momenti limpidi, abbaglianti, a tutto campo, a tutta corsa, sempre in avanti, sospinti da una tenace mentalità d’attacco. Momenti perduti in fretta, magari la domenica dopo in un campo di provincia, a inciampare sulla tattica degli altri. Mai troppo considerata, mai troppo preparata, studiata.
     
    IN EUROPA LA DELUSIONE PIU' GRANDE - In sostanza, Benitez ha portato (anzi, ri-portato) qualcosa, i terzini della difesa a quattro che salgono, senza timidezze, un’idea che stava scomparendo in Italia, tanto da smarrire gli interpreti del ruolo, fino a elevare il prezioso Darmian a uomo mercato. E un’idea ampia di attacco, su tutto il fronte, in velocità, palla a terra. Intenzioni di attacco fiero, svincolato dai tatticismi. Ma non ha tenuto niente di quello che incontrava, non ha assorbito le complicazioni, le deviazioni. Infatti il Napoli ha ripetuto gli stessi errori, stancandosi di questo, e deprimendosi. Dopo l’avvio difficile, c’era stato un momento di forza autentica – la vittoria con la Roma, così dominata – che annunciavano un cammino poi negato da trappole messe sul sentiero come se fossero scientifiche: le debolezze altrui proponevano molte occasioni di rientrare in corsa, eppure, puntualmente, il Napoli frenava, lasciando indelebile l’impressine di una stagione sprecata. Chiamato infine per irrobustire lo spessore europeo della squadra, con cotanto curriculum, ha invece deluso nel suo territorio di caccia: in questi due anni, l’Europa è stata proibita da Arsenal, Dortmund, Porto, Bilbao e Dnjepr: sconfitte di rango decrescente, che condannano a una dimensione lontana da quella sperata. 

    90' PER TAMPONARE QUALCOSA - Eppure, ci sono ancora 90’ per tamponare qualcosa, per riportare almeno le cose come furono trovate: ereditò il Napoli in Champions, e può almeno lasciarlo lì. Poi i saluti, quello che poteva aggiungere l’ha dato, altro non può più darlo. E molto non ha voluto capirlo. Bisogna sperare per i napoletani che chi verrà al suo posto sappia conservare quell’aggiunta e l’appuntelli di concentrazione, di sopportazione di domeniche meno fluide, ma ugualmente importanti.

    LA LAZIO RISCHIA - Certo, davanti ci sarà una squadra che guarda le sue mani svuotarsi come se avessero raccolto sabbia. La Lazio aveva molto da giocarsi, solo pochi giorni fa, ma le cose cambiano ed invero tutto è girato male: la partita sghemba con l’Inter, che ha tolto serenità in campionato, la finale con la Juventus, girata su un doppio palo, il derby di ieri, giocato, anche padroneggiato ma senza quella sicurezza che doveva trasformarsi in coraggio. Così adesso la Lazio rischia di essersi inflitta la più insopportabile delle torture: aver costruito con il gioco la possibilità di marchiare nella memoria una grande stagione, e doverla invece già rimpiangere. C’è tempo, ma ieri è scivolata in un peccato d’ingenuità: la Lazio ha palleggiato, credendo di possedere la partita. In realtà ha posseduto “solo” il campo, togliendo l’imbarazzo (e che imbarazzo) della manovra alla Roma. E intasando gli spazi ai suoi magnifici contrattaccanti, che hanno dovuto ragionare nel traffico, spesso con marcature triplicate. È vero che questo bastava a controllare il match, ma appena Garcia ha mosso l’attacco, trovando più movimento e profondità con Ibarbo (e in questa lunghezza si è finalmente liberato Nainggolan) e più transizione con i passaggi di Pjanic, la Lazio ha dovuto ragionare su debolezze anestetizzate da quel governo sterile del campo. La Roma si è talmente eccitata per aver trovato 3-4 palloni giocabili in attacco, che si è fatta forte di quelle rare occasioni: capita. La Lazio ha scoperto tardi che a quel ritmo e con un avversario così statico in difesa, si poteva anche azzardare la seconda punta, e fare più densità in area, visto che era difficile entrare con gli esterni.

    È stata la stanchezza (e forse anche la paura, che spolpa i muscoli quanto l’acido lattico) a togliere qualcosa alla Lazio, ma se Pioli sarà bravo a liberare Formello dallo sconfortante pensiero di un finale beffardo, che sarebbe un’attrazione fatale verso il dramma, può andare a Napoli con argomenti e certezze tecniche e tattiche profondamente dimostrate in questi mesi.

    ROMA, UN SECONDO POSTO AUTO-RIDIMENSIONATO - La Roma è dunque seconda, e tutto questo avrebbe oggi maggiore significato se l’ambiente non avesse provveduto a ridimensionarlo con attese sconsiderate. Garcia e Sabatini dovranno setacciare l’attacco, lasciando poco di quello che c’è, e cercando in giro certezze assolute: così si costruiscono squadre per i titoli. Due mezzi giocatori (così come uno statico e uno frenetico) non ne fanno uno intero: semplicemente, lasciano due ruoli scoperti. Non si può ambire a niente, senza attaccanti che non arrivano a 10 gol in una stagione intera, fra Campionato e Coppe. Si perdono così i punti di riferimento, nessuno caratterizza la squadra e aiuta l’allenatore nell’assemblaggio, indicando la maniera giusta (come invece hanno fatto Felipe Anderson e Candreva alla Lazio, imponendo di fatto un certo modo di attaccare). Ma alla Roma serve anche un tagliando tattico, un’idea nuova che misurerà il valore di Garcia: quella linea di gioco che lo scorso anno si spostava con naturalezza quest’anno era invece insipida, inceppata, da risultare ripetitiva. Bisogna insegnare a Iturbe a giocare in 30 metri di campo, che i 60 metri di Verona non ci sono più, ma la sua capacità di incidere sulla pelle della difesa altrui è vera, ritrovata. A Roma non può ricevere il disimpegno, e deve muoversi per ricevere la rifinitura. È solo un esempio per dire che la costruzione tattica può rivitalizzare qualcuno, non tutti: Iturbe, sì. 

    GARCIA COME BENITEZ? - Anche Garcia – come Benitez – ha portato qualcosa, anche lui ha subito il riflusso del suo impatto, si è misurato (male) con le contromisure altrui (la più semplice: lasciare alla Roma la palla, e vederla avanzare piano, una volta accorciato il campo a Gervinho). Però Garcia – a differenza di Benitez – sembra avere maggiore considerazione per gli avversari, sembra avere più gusto per la tattica, più indole strategica, e per questo pare comunque navigare meglio nel mare della Serie A. Nemmeno la Roma ha trovato la dimensione che cercava. Ma se non si schiaccia d’irrealtà, e se chiarisce e incoraggia nuove gerarchie, può ricominciare da questo secondo posto.

    Marco Bucciantini

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