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Caro Agnelli, è ora di rivedere lo slogan

Caro Agnelli, è ora di rivedere lo slogan

“Io però so che quella coppa non l’ho mai vinta”, ha ricordato in questi giorni Marco Tardelli, parole che rendono improrogabile l’appello da rivolgere al presidente Andrea Agnelli: seppellire per sempre lo slogan “Vincere è l’unica cosa che conta”. Uno slogan barbaro che infanga, oltretutto, la storia stessa della Juventus: che come nessun club in Europa ha perso praticamente tutte le partite che contavano, l’ultima (malissimamente) sabato notte. Sarebbe ora di smetterla, caro presidente. Per il bene della Juve, prima di tutto.

Se fosse vero che vincere è l’unica cosa che conta, dovremmo considerare scamorze Zoff e Altafini, Capello e Anastasi, Furino e Salvadore che a Belgrado, il 30 maggio 1973, si opposero invano allo strapotere dell’Ajax di Cruijff. Ed è vero che il Milan quattro anni prima aveva travolto l’Ajax a Madrid (4-1): ma Cruijff era un astro nascente e Rivera e Prati lo avevano incrociato nel posto giusto al momento giusto, cosa che non capitò al Panathinaikos (1971, 0-2), all’Inter (1972, 0-2) e alla Juventus (1973, 0-1). Se così fosse, bisognerebbe sospettare che i campioni del mondo Gentile e Cabrini, Zoff e Scirea, Tardelli e Paolo Rossi non siano stati poi quei campioni che tutti pensiamo se è vero che il 25 maggio 1983, ad Atene, si fecero infinocchiare dall’Amburgo (sic). Un gol di Magath bastò ad Happel per sparigliare le carte (1-0) e mandare il Trap in tilt. E Rossi capocannoniere con 6 gol e Platini vice con 5 non servirono a nulla.

Se fosse vero che vincere è l’unica cosa che conta, dovrebbero andare a nascondersi Deschamps e Zidane, Peruzzi e Bobo Vieri, Boksic e Ferrara che il 28 maggio 1997, a Monaco, in una finale che non avrebbe dovuto avere storia si squagliarono (1-3) contro il Dortmund dei rifiuti della serie A (ex Juve in primis): Kohler e Reuter, Moeller e Paulo Sousa, Sammer e Riedle. Hitzfield si prese gioco di Lippi, che tolse Porrini e mise Del Piero, poi tolse Boksic e mise, ehm, Tacchinardi. Se così fosse, Lippi avrebbe dovuto ritirarsi a vita privata, l’anno dopo, quando il 20 maggio 1998 ad Amsterdam la Juve di Del Piero (capocannoniere con 10 reti), Inzaghi e Zidane si fece ipnotizzare dal (poco) leggendario Real Madrid di Raul, Morientes e Mijatovic tornando a casa piagnucolante per il sospetto di un fuorigioco di Mijatovic nell’azione del gol.

Se fosse vero che vincere è l’unica cosa che conta, Lippi avrebbe dovuto gettarsi dalla Town Hall di Manchester quando il 28 maggio 2003, all’Old Trafford, vide Dida parare non uno, non due, bensì tre rigori a Trezeguet, Zalayeta e Montero nella finale contro il Milan (e con lui avrebbero dovuto lanciarsi anche Moggi e Giraudo, i boss che due anni prima si erano sbarazzati di Ancelotti considerato un allenatore perdente). Se così fosse, non avremmo dovuto vedere Allegri in panchina, sabato a Cardiff, dopo che il 6 giugno 2015, a Berlino, la sua Juve era colata a picco (1-3) nella finale contro il Barcellona di Luis Enrique, non proprio paragonabile al favoloso Barça di Pep Guardiola.

Questo slogan, “vincere è l’unica cosa che conta”, in bocca al club famoso per non vincere mai l’unica coppa che conta, ha fatto il suo tempo. Se Agnelli è d’accordo, che sia dimenticato. I bambini ringrazieranno. Gli educatori pure. E anche il ricordo delle tragedie, compiute o solo sfiorate, sarà per tutti meno pesante.

Paolo Ziliani per Ilfattoquotidiano.it

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