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  • Ciao Bernardi, caro eroe randagio. Sarò sempre il tuo diminutivo

    Ciao Bernardi, caro eroe randagio. Sarò sempre il tuo diminutivo

    • Marco Bernardini
    Le lenti degli occhiali mi si appannano. Eppure mentre scrivo non indosso la mascherina. Saranno mica lucciconi, per caso? Massì, sono lacrime che arrivano da sole. Vigliacche! Ma mica mi vergogno. Di che cosa, poi? Del dolore non bisogna provare imbarazzo quando non è retorico o di maniera. La cosa strana, buffa direi, è che allo stesso tempo sorrido.
    Avvolto da un incontenibile senso di tenerezza butto giù questi pensieri, come verranno… verranno. Il rotolio di una valanga. Quella che ha portato via Bruno Bernardi. Il secondo amico autentico, dopo Darwin  Pastorin che è più un fratello, di una vita assolutamente folle eppure sempre leale, dissacrante ma anche rispettosa, alcolizzata e lucida insieme, spericolata ma attenta,  intossicata dal fumo ma anche tersa come una mattina di primavera in montagna, compagna di principi e barboni e giocatori di poker e belle di notte e preti operai. 

    Noi che abbiamo visto cose. Ma soprattutto vissute, uscendo fradici di pioggia ma indenni dal mondo di Blade Runner. Cacciatori e prede, a seconda delle situazioni. Lui, Bruno, ed io che sarò sempre il suo diminutivo per via del cognome. Così mi ha sempre detto. Bernardi e Bernardini. Mancava Cacasenno, come in Bertoldo e Bertodino, poi saremmo stati al completo. Per questo sorrido mentre piango e scrivo e fumo una dietro l’altra nella stanza che è un mare di nebbia bluastra. Quarantacinque anni sono mica roba da ridere. Più tempo insieme noi due che con le rispettive famiglie. A rincorrere quelli che giocavano a pallone. Quelli della Juventus in particolare. Io sognatore e un poco visionario affascinato dal gusto per la parola come gioco. Lui cronista di ferro, asciutto e concreto, con le antenne sempre dritte e quell’aria da Bogart nel ruolo del detective: “Novità, notizie, news?” Era il suo refrain.

    E fu anche per questo che Giovanni Arpino ne fece uno tra i protagonisti principali, come “Bibì”, nel suo bellissimo romanzo “Azzurro tenebra “ regalandogli una scheggia di immortalità. Nel mio piccolo potrei scriverlo pure io un romanzo dedicato a Bruno. Raccontando di equivoci alle reception degli alberghi su riservazioni fatte a Bernardi anziché a Bernardini o viceversa. Di notti spagnole con un olè femminile interrotto a metà perché la voce del direttore, da Torino, interrompeva il divertimento. Di nevicate nei villaggi più assurdi dell’Est guidati da un interprete che faceva paura perchè sembrava un assassino. Nella Moschea Blu a Istanbul senza scarpe e chini a Maometto. Ore al tavolo in compagnia di Sandro Ciotti,  che si finiva a parlare di Tenco. Le sue prestazioni a pagamento ma anche per vanità al Processo di Biscardi. E poi al ristorante con lui che lo riconoscevano e godeva a farla bella figa.

    L’infarto nella camera di hotel a New York, al quarto pacchetto di sigarette consumato nello scrivere il terzo pezzo. Una fifa boia. Lo presero per i capelli dopo essersi assicurati che avesse la carta di credito. Garantii io. La convalescenza  a ricordare come era giovane e bello quando giocava a pallone e anche con un certo talento. Ma non era quello il destino scritto per lui. Per Bruno Bernardi, eroe randagio e vagabondo di un tempo che non c’è più. Era la strada il suo mondo. Il suo, nostro, tavolo da gioco dovesi poteva vincere o perdere, l’importante era non barare. Piango e sorrido, insieme. Io il suo diminutivo. Per sempre.

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