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  • Crosetti: Heysel, come una partita diventò tragedia

    Crosetti: Heysel, come una partita diventò tragedia

    Riprendiamo e pubblichiamo da Repubblica.it un articolo di Maurizio Crosetti sulla tragica notte del 29 maggio 1985. 

    LA RAGAZZINA aveva piccole labbra rosse di sugo, come se avesse mangiato marmellata di fragole e poi si fosse addormentata. Il cielo era invece di un rosso più tenue, soffuso e morbido, voleva prendersi tutta l’aria. I tifosi del Liverpool erano vestiti di un rosso elettrico molto vivo, e sembravano assai più numerosi degli italiani, forse dipendeva proprio dal colore dominante. I muri di pietra della città avevano, infine, un tono rossastro di sangue raggrumato, e i mattoni parevano croste. C’era, già dal mattino, qualcosa di strano, una specie di minaccia impossibile da chiamare per nome.
     
    Trent’anni sono un tempo definito, esatto. I figli riescono a trovare un lavoro e magari sposarsi, un mutuo si estingue finalmente, e una carriera lavorativa si completa oppure si conclude. La memoria, lei fa sempre quello che vuole, aprendo cassetti dove tutto è in disordine ma anche nitido: oggi, adesso è di nuovo quel giorno.

    La città era lurida, la percorrevano ruscelletti di birra e piscio. Alle dieci di mattina, la Grand Place era piena di vetri spezzati. Gruppi di inglesi ubriachi ronfavano nel mezzogiorno, distesi sul selciato, le teste appoggiate a cartoni di bottiglie usate come cuscini. A un certo punto, da una finestra d’improvviso spalancata volò un oggetto di cristallo, una specie di centrotavola scagliato per disperazione contro la marea urlante degli hooligans, ed esplose come una bomba. Si rischiava di ferirsi anche solo passeggiando, nell’attesa della partita. Ed era un giorno tiepido, dolcissimo.

    Arrivammo allo stadio Heysel su un autobus con sopra scritto “Italian press”, non proprio un’ideona: un gruppo di rossi feroci si accostò ululando, e quando scendemmo ci vomitarono addosso gli aliti alcolici. Era dunque questa, la partita più bella del mondo?

    Saranno state le sei del pomeriggio, salimmo subito in tribuna. Il tramonto era meraviglioso, proprio dietro la curva alla nostra sinistra, quella del settore Z e della tragedia. Si trattava di aspettare, è quel rito che precede i grandi eventi sportivi, l’appassionato respira tutto, ricorderà tutto, figurarsi l’inviato giovane alla prima trasferta vera. Non c’erano telefonini, si scattavano foto con gli occhi.
     
    Poi, di colpo, verso le 19.20 la curva prese a ondeggiare come un mare impazzito, un mare assurdo nell’assenza di vento. I rossi tiravano cose da sinistra verso destra, pietre, fumogeni, e intanto si spostavano compatti. «Guarda, attaccano!», disse qualcuno. Una, due volte. Gli italiani, che erano pochi (la maggioranza stava nella curva opposta: chi era capitato lì lo aveva fatto comperando da sé i biglietti, si può morire anche per distrazione) presero a indietreggiare, però senza vie di fuga. Qualcuno trovò spazio e salvezza verso il prato, da dove però i gendarmi belgi provavano a respingere le persone con i manganelli. Finché il muretto divisorio cedette, e quasi tutti restarono sotto la massa che sfondava, corpi calpestati, schiacciati, soffocati.

    Dalla tribuna si capiva e non si capiva. «Ci sono dei morti», disse una voce, e subito ci precipitammo giù dalle scale verso l’antistadio. E li vedemmo. Erano già allineati, cinque, otto, dodici corpi morti in fila e senza nessuno accanto. Corpi soli, irreparabili. Transenne di ferro venivano usate come barelle, la polizia a cavallo andava avanti e indietro, soffiando nei fischietti e roteando bastoni. C’erano infermieri, pochi, e medici, ancora meno. C’era morte dappertutto.
     
    Trent’anni sono un tempo lunghissimo e un nonnulla, dietro le porte del cervello c’è solo mistero, chissà chi archivia le immagini lì dentro, chi sceglie, chi scarta. Malinconia per le nostre vite intatte. Nel ricordo c’è l’uomo con la pancia enorme e un altro uomo arrampicato su quella collina di carne, per tentare un massaggio cardiaco. C’è il ragazzo con la gola tagliata, è una tracheotomia: morirà entro pochi istanti. C’è un silenzio assurdo. C’è la ragazzina con la marmellata sulle labbra piccole. Porta scarpette bianche e blu.

    Persone attorno, tante. Ora sale anche il rumore. La gente italiana vede i pass che penzolano al collo dei giornalisti, allunga mani, porge foglietti con numeri di telefono, per favore chiamate casa, dite a mia mamma che sono vivo. Non esistevano cellulari, computer, internet in quella preistoria dell’uomo. In tribuna stampa, noi di Tuttosport avevamo un telefono a disco di bachelite nera e sì, qualcuno di quei numeri ignoti lo componemmo ma pochi, c’era prima da lavorare, da dettare i pezzi a braccio, nessuno scrisse una riga battendo i tasti delle Olivetti, fu semmai una narrazione orale e corale, un disperato racconto nel buio, una pioggia di parole intrise di sangue. Non si poteva comprendere, c’era solo da guardare, salire e scendere scale, descrivere come meglio si poteva, cioè malissimo. Il senso di inadeguatezza, di vuoto non è mai svanito, insieme alla vergogna di prendere appun- ti. Eravamo bimbi tra i lupi.

    Il resto lo sanno tutti. Gli appelli dei capitani di Juve e Liverpool, la voce del povero Scirea (è ancora viva anche lei, con quel tono di quieta timidezza, il sussurro di un uomo buono, «restate calmi, giochiamo per voi»), la partita che comincia alle 21.40 invece che alle 20.15 (allora le finali iniziavano alle otto e un quarto e c’era solo la Rai, solo la cadenza sbigottita e impotente di Bruno Pizzul). I rossi e i bianconeri, il fulvo Zibì Boniek atterrato fuori area però l’arbitro dà il rigore, tira Platini, gol, poi il francese festeggia roteando il pugno, assurdamente. L’atmosfera sospesa, irreale, e la gara non fasulla perché c’è qualcosa di diabolico e disperato nella resistenza umana. Vince la Juventus, in campo ci si abbraccia ma intanto Claudio, un collega più anziano, piange accanto al cronista ragazzino, e ripete «è finita, adesso è finita».

    Saranno trentanove, i morti, in fondo a quella fine che invece ricomincia ad ora incerta, almeno una volta all’anno ricomincia nel tepore di maggio, e negli anniversari tondi come un pallone, e nel ricordo delle voci dei parenti come Otello Lorentini che li rappresentava tutti, e adesso anche lui se n’è andato. La fine ricomincia nell’imboscata di certi sogni, o nella memoria a bruciapelo di una vita intera di stadi, passione, pelle d’oca, felicità, partenze, solitudine, stanchezza, viaggi, città, parole. E sempre ritornano quelle labbra piccole, rosse, che non avranno baci, mai più.
     

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